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2. CAPITOLI DA 3 A 12 — I RISVEGLI

Henri L. Rossier

Il libro dei giudici

2.1 Othniel (leggere cap. 3:5-11)

Come abbiamo visto, è molto importante comprendere che per la Chiesa, poiché è stata infedele alla chiamata di Dio, non esite quaggiù alcuna possibilità di ristoramento collettivo. I risvegli che Dio produce per mezzo dello Spirito sono sempre parziali. Degli sguardi limitati, un cuore sovente stretto, abituato a non abbracciare e a non amare della Chiesa se non quello che ci riguarda da vicino, ci impediscono di renderci conto dello stato reale della Chiesa in questo mondo. Per ogni credente abituato a dipendere dalla Parola di Dio, è un fatto indiscutibile che i nostri giorni sono giorni malvagi, in cui agisce già il mistero d’iniquità, poiché vi sono già molti anticristi, e sta preparandosi l’apostasia finale. Ma un fatto altrettanto assoluto è che Dio è fedele, che conosce quelli che sono suoi e non rimane mai senza una testimonianza.

Come abbiamo visto nel cap. 2, l’Eterno si serve anche del male per portare ai suoi delle nuove benedizioni. Non è forse il medesimo Dio che adoperò Satana come strumento per condurre Giobbe alla luce della sua presenza? Così, in questo libro dei Giudici, Dio si serve dell’oppressione del nemico, del tutto meritata, per produrre dei risvegli in Israele. Una frase comune fa da introduzione al racconto di tutti questi risvegli: «Essi gridavano all’Eterno». La cristianità dei nostri giorni discute sui mezzi necessari per produrre dei risvegli. Ne esiste uno solo: il sentimento della miseria del mondo, del peccatore e della chiesa, che conduce l’anima travagliata a rivolgersi a Dio. «Essi gridarono all’Eterno».

Allora l’Eterno manda loro dei liberatori. Dal cap. 3 al 16, il libro dei Giudici ci presenterà questi risvegli e i loro diversi caratteri. Cominciamo con un’osservazione di carattere generale. In tempi di decadenza morale, Dio agisce per mezzo di strumenti che hanno tutti qualcosa d’incompleto e portano l’impronta della debolezza: Othniel discende da un ramo cadetto della famiglia, è «figlio di Chenaz, fratello minore di Caleb»; Ehud è debole per un difetto, era mancino; Shamgar è debole per lo strumento che adopera, un pungolo da buoi; Debora per il suo sesso, Barak per il suo carattere naturale (cap. 4:8-9), Gedeone per le sue relazioni con «molte mogli» e la concubina (cap. 8:30-31), Jefte per la sua nascita, era figlio di una meretrice. Altri giudici, invece, sono ricchi e influenti (cap. 10:1-4; 12:8-15), ma Dio li adopera più per mantenere i risultati ottenuti che per operare delle liberazioni. Non siamo più ai tempi di Giosuè, o degli apostoli, al tempo d’una forza particolare infusa dallo Spirito nell’uomo che impediva alla debolezza della carne di manifestarsi.

Abbiamo già parlato di Othniel; il cap. 1 descrive la storia della sua vita privata. In tal modo Dio l’aveva formato per farne il primo giudice d’Israele. Dopo aver combattuto per avere una sposa, era entrato in possesso d’un’eredità e di alcune sorgenti che la fecero fruttare. Qui, Dio l’adopera per combattere per gli altri. Avviene sempre così. Perché il cristiano diventi uno strumento pubblico, deve prima aver fatto dei progressi personali nella conoscenza del Signore e nella potenza dei suoi privilegi. Se siamo poco adoperati nel servizio, generalmente è perché i nostri cuori non sono abbastanza occupati delle cose celesti. Le ricchezze morali che Othniel ha acquistato si manifestano ben presto nel suo cammino. Il breve versetto 10 menziona sei cose di lui:

1. Lo Spirito dell’Eterno, la potenza di Dio per liberare Israele, fu sopra lui.

2. Egli giudicò Israele. Il governo gli fu affidato.

3. Egli uscì in guerra. Fu attivo nel combattimento.

4. L’Eterno gli diede in mano Cushan-Rishathaim, re di Mesopotamia. È la vittoria.

5. La sua mano si rinforzò contro a Cushan-Rishathaim. Riuscì a soggiogare definitivamente il nemico.

6. Il paese fu in riposo quarant’anni. Israele potè godere in pace i frutti della sua vittoria.

Lo scopo di Dio è raggiunto. Quest’uomo che discendeva in linea indiretta dal nobile Caleb, fu uno strumento completo, preparato in anticipo per quel servizio; e, messo alla prova, rivelò di essere come un metallo passato al crogiuolo dalla mano del divino artefice. Chiediamo a Dio degli Othniel per i tempi in cui viviamo, o meglio, siamo noi stessi degli Othniel, con una consacrazione vera al Signore nella nostra vita privata, un desiderio crescente di appropriarci delle cose celesti, per essere degli strumenti utili al servizio del Maestro e «preparati per ogni opera buona».

2.2 Ehud (leggere cap. 3:12-30)

Othniel muore; Israele ritorna a fare il male e dimentica l’Eterno. Dio, che aveva fortificato Othniel contro il nemico, fortifica ora Eglon, re di Moab, per esercitare il1 suo giudizio contro Israele. Eglon e i suoi alleati si impadroniscono della città delle palme (cap. 1:16; Deuteronomio 34:3), cioè Gerico, considerata qui non come «città maledetta», ma nel suo carattere di benedizione per Israele. Israele, in piena decadenza, si serve proprio di Ehud, lo strumento liberatore che Dio doveva adoperare, per mandare per mezzo suo un regalo ad Eglon, suggellando così il suo assoggettamento al mondo, cercando farselo propizio! Quanti doni, ai giorni nostri, sono strumenti per mantenere i figli di Dio sotto il dominio del mondo! Ma Ehud è fedele, e per prima cosa si fa forgiare una spada a due tagli. È la sua unica risorsa. La stessa cosa per il cristiano; la sua spada a due tagli, la sua sola arma offensiva, è la Parola di Dio (Ebrei 4:12; Apocalisse 1:16; 19:15; Efesini 6:17). Questa spada era lunga solo un cubito; sì, era corta ma adatta al suo compito. Era una spada fatta per penetrare nelle viscere del nemico di Dio e dargli la morte. 

Prima di adoperare l’arma, Ehud la cinge «sotto la veste al fianco destro». La porta fino al momento di servirsene, ma non la mette in vista. Si porta sovente la Parola esteriormente, la si cita molto, ma senza veramente servirsene. Eppure la Parola ha uno scopo. Ehud, che era mancino, adatta la spada alla sua infermità portandola dal lato destro. Se l’avesse portata come gli altri, non gli sarebbe servita a nulla. La sua arma deve rispondere innanzi tutto al suo stato personale. Non si può servirsene imitando gli altri, come Davide non poteva servirsi della spada di Saul. A Davide occorreva la fionda e il sasso, oggetti che gli erano famigliari essendo un pastore.

Dopo aver offerto il regalo a Eglon, Ehud se ne torna alla cava di pietre, presso Ghilgal. Egli ha, dice, «una parola segreta» per il re. Ehud non riporta una vittoria pubblica, come tanti altri; qui c’è un combattimento segreto fra il liberatore e il nemico, un combattimento solitario, ma i cui effetti pubblici non tardano a farsi vedere. Fu così della lotta di Cristo contro Satana nel deserto. Qui, tutto avviene nel silenzio, senza grande movimento e senza grida. Il nemico è trovato morto dai suoi servitori. La potenza che assoggettava Israele è annientata da una vittoria senza rumore e senza gloria, dovuta alla spada d’un uomo mancino. Era una parola segreta, ma «una parola da parte di Dio» per Eglon (v. 20). La nostra arma è divina, ed è ciò che costituisce tutta la sua forza. Come sarà per Gedeone, la spada di Ehud era la spada dell’Eterno. Il re è morto, ma l’arma non gli è tolta dal ventre. Così, i servitori del re hanno sotto gli occhi il semplice strumento della vittoria di Dio.

Ehud deve poi raccogliere i frutti della vittoria. Suona la tromba nel monte d’Efraim e raduna il popolo di Dio, che toglie ai Moabiti i guadi del Giordano, e non lascia passare neanche un Moabita. Il popolo rivendica il suo territorio usurpato. Così è risolutamente interrotta ogni comunicazione col nemico, grazie alla vigilanza dei figliuoli d’Israele. L’usurpatore è cacciato e distrutto. Tale dev’essere il risultato della lotta nei tempi attuali; se non ha per effetto di farci troncare apertamente col mondo, la lotta rimane sterile e non risponde all’intenzione di Dio. Più la separazione dal mondo è completa, più la pace è durevole. Il paese fu in riposo per ottant’anni.

2.3 Samgar (leggere cap. 3: 31)

Dopo Ehud, vi fu Samgar, figlio di Anath che riportò una notevole vittoria sui Filistei. Egli pure liberò Israele. La spada di Ehud era potente, ma corta; Samgar percuote con un’arma (un pungolo da buoi) che non sembra affatto adatta a questo compito, uno strumento di poco pregio che può servire, apparentemente, soltanto a stimolare degli animali con poca intelligenza! Pur non pretendendo di scoprire qui dei tipi o delle allegorie, mi piace paragonare il pungolo di Samgar alla spada di Ehud. Noi abbiamo un’arma, la Parola di Dio; è la sola di cui si deve servire l’uomo di fede per il combattimento. Secondo il mondo intelligente, ma incredulo, questa Parola è come un «pungolo per buoi», utile tutt’al più per le donne, i bambini, gli ignoranti... Eppure Dio l’adopera per vincere le sue battaglie! Quando la fede se ne serve, essa è un’arma anche se il mondo la considera follia, poiché «la debolezza di Dio è più forte degli uomini». Serviamoci dunque della Parola come Dio ce l’ha data, ma ricordiamoci che ha effetto solo se è usata con fede e quando l’anima ha trovato la comunione con Dio, la conoscenza di Cristo e, con essa, la benedizione, la gioia e la forza.

2.4 Debora e Barak (leggere cap. 4)

Fin qui Dio, per castigare gli Israeliti infedeli, li ha dati in mano ai nemici del «di fuori» 1; ma una nuova infedeltà porta per il popolo conseguenze ancora più gravi. Un terribile avversario, Iabin, re di Canaan, che regnava in Hatsor (v. 2), opprime Israele e lo domina con novecento carri di ferro. Al capitolo 11 di Giosuè, troviamo un antenato di questo Iabin con dei carri da guerra e la stessa città per capitale. Ma a quel tempo, Israele, sotto l’azione potente dello Spirito di Dio, aveva capito che non poteva avere con Iabin alcuna relazione. Così lo annientò, dopo aver bruciato i suoi carri e distrutto la sua capitale. Infatti, che relazione poteva avere il popolo di Dio col mondo politico e militare, la cui presenza doveva essere radiata dalla mappa di Canaan? Ma ora, purtroppo, tutto è cambiato; Israele infedele è caduto sotto la dominazione del mondo. Il nemico d’un tempo risorge dalle ceneri, Hatsor è riedificata nel paese di Canaan, l’eredità del popolo di Dio è diventata il regno di Iabin!

1 Eccetto i Filistei sotto Samgar. Ma il versetto 31 del capitolo 3 è una parentesi: all’inizio del nostro capitolo la storia generale riprende, non dopo la morte di Samgar, ma dopo la morte di Ehud

La storia della Chiesa ci offre un quadro simile: prima, una posizione di completa separazione dal mondo; di conseguenza non si tollerava che esso partecipasse al governo della Chiesa. Ma un po’ alla volta le cose cambiarono; già a Corinto, lo stato carnale di quell’assemblea l’aveva condotta su questo pendio. Alcuni di loro, se avevano una lite con un altro, portavano il fratello in giudizio davanti agli increduli e non davanti ai santi (1 Corinzi 6). «Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo?» dice l’apostolo; e, riprendendoli, aggiunge: «Dico questo per farvi vergogna». Ma che via ha seguito la Chiesa da allora? Attualmente, è il mondo che la governa. «Io conosco dove tu abiti — dice il Signore alla chiesa di Pergamo — cioè là dov’è il trono di Satana» (Apocalisse 2:13). Anche nei giorni del grande risveglio della Riforma, i credenti sono ricorsi ai governi del mondo e si sono appoggiati su di loro, ricorrendo alla protezione dei capi e delle potenze di quaggiù.

Quello che Giosuè aveva fatto ad Hatsor era ormai solo un ricordo. Israele ora serve gli dei dei Cananei, ha preso le loro figlie per mogli e dato le sue figlie ai loro figli (3:5-6). Quest’unione porta i suoi frutti: Iabin opprime il popolo. Ma ecco un altro carattere del misero stato d’Israele in quei giorni nefasti; se il governo esterno, quello politico, del popolo era nelle mani del nemico, com’era la situazione all’interno? Tutto è affidato a una donna! La Parola di Dio ci fa sapere che al principio il governo della Chiesa era affidato agli anziani stabiliti dagli apostoli e dai loro delegati, sotto la guida dello Spirito Santo. L’ordine dell’assemblea e tutto ciò che vi si riferiva era competenza loro e dei diaconi. Oggi, si sta facendo strada sempre più, fra le denominazioni della cristianità, la tendenza a mettere tutto o parte del governo fra le mani delle donne. E si vantano di questo! E alcuni pretendono di dimostrare che dev’essere così, che la cosa è secondo Dio, e che denota uno stato fiorente della Chiesa! Per appoggiare la loro convinzione citano il caso di Debora.

Vediamo chi era Debora. Era una donna insigne, una donna di fede, che soffriva profondamente per lo stato umiliante del popolo di Dio. Ella considera il fatto che Dio affidi una responsabilità pubblica a una donna, in mezzo al popolo, una vergogna per i conduttori d’Israele. E dice a Barak: «Certamente, verrò con te; soltanto, la via per cui ti metti non ridonderà ad onor tuo; poiché l’Eterno darà Sisera nelle mani d’una donna» (v. 9). Ma pur esercitando un’autorità da parte di Dio, a vergogna di quel popolo reso debole dal peccato, Debora sa conservare la posizione assegnata dalla Parola alla donna. Diversamente, non sarebbe stata una donna di fede. Questo capitolo ci riferisce la storia di due donne di fede, Debora e Jael. Entrambe mantengono la posizione che Dio ha dato alla donna. Dov’è che Debora esercita le sue funzioni? La si vede forse, come altri giudici, percorrere il territorio di Israele o mettersi a capo di eserciti? No, e non è senza motivo che la Parola ci dice: «Ed essa sedeva sotto la palma di Debora... e i figliuoli d’Israele salivano a lei per farsi rendere giustizia» (v. 5). Pur essendo profetessa e giudice in Israele, Debora non abbandona l’ambito che Dio le assegna.

Al v. 6 vediamo che Debora fa chiamare Barak invece di recarsi da lui. Barak è un uomo di Dio, elencato fra i giudici d’Israele. Lo troviamo anche nel capitolo 11 degli Ebrei che parla degli esempi di fede: «Il tempo mi verrebbe meno se narrassi di Gedeone, e di Barak, di Sansone, di Jefte» (Ebrei 11:32); ma è un uomo senza carattere, senza energia morale, senza fiducia in Dio. Non aspettatevi mai, in un tempo di rovina, di vedere gli uomini che Dio adopera ad un elevato livello spirituale. Non solo il numero degli operai è piccolo, ma anche poco evidenti sono i doni dello Spirito, e la loro debolezza è motivo di tristezza fra i cristiani!

Barak, perla sua mancanza di carattere, desidera essere un aiuto della donna, mentre, secondo Genesi 2:18, la donna è l’aiuto dell’uomo. Egli svaluta il ministerio che Dio gli ha affidato, e, peggio ancora, cerca di fare uscire Debora dalla sua posizione di dipendenza come donna. «Se tu vieni meco andrò; ma se tu non vieni meco, non andrò» (v.8). «Certamente, verrò con te», risponde Debora. E poteva farlo, senza per questo uscire dalla posizione che la Scrittura dà alla donna. Ai tempi del Signore Gesù, le sante donne andavano con Lui, camminavano con Lui, facendosi sue serve per provvedere ai suoi bisogni. L’atto di Debora era buono, ma il motivo di Barak era cattivo, e Debora lo riprende severamente (v. 9). Qual era in fondo il motivo di Barak? Voleva sì dipendere da Dio, ma senza rinunciare a un appoggio umano e visibile. Il mondo cristiano è pieno di tali persone. È così misera la realizzazione della presenza di Dio, così debole la conoscenza della sua volontà che, per camminare nelle vie di Dio, si preferisce affidarsi ad intermediari piuttosto che dipendere unicamente e direttamente da Dio. Si seguono i consigli delle cosiddette «guide spirituali», invece di prendere per guida il Signore, il suo Spirito e la sua Parola. E se il conduttore sbaglia? Invece Dio, il Signore, il suo Spirito, la sua Parola sono infallibili!

La fedele Debora non incoraggia Barak su questo falso cammino; è lui a portare le conseguenze della sua mancanza di fede. Lo vediamo così salire col suo esercito, e Debora è con lui.

Heber, uno di quei Kenei di cui abbiamo parlato al cap. 1, si era separato dalla sua tribù in quei tempi agitati e aveva rizzato altrove le sue tende (v. 11). È scritto che «v’era pace fra Jabin, re di Hatsor, e la casa di Heber Keneo» (v. 17). L’atto di Heber poteva essere un atto di fede? Non credo. Separandosi, aveva agito come se si volesse scuotere di dosso la responsabilità del triste stato del popolo d’Israele 2. Inoltre, era «in pace» col nemico del suo popolo, e aveva fatto in modo di non venir disturbato da Jabin. Ma una debole donna abitava sotto la tenda di Heber. Era Jael, sua moglie. Ella non voleva una sicurezza comprata a quel prezzo, e non riconosceva l’alleanza col nemico della sua nazione. Il suo cuore era con Israele. Barak vince; Debora, la donna di fede, non prende per sé la gloria della vittoria. L’esercito di Iabin è sconfitto da Barak. Il suo capo, Sisera, e obbligato a fuggire a piedi, e giunge alla tenda di Jael, credendo di trovarvi ospitalità. Jael lo nasconde; egli le chiede dell’acqua, ed ella gli dà una bevanda migliore, del latte. Sulle prime lo tratta gentilmente, ma sa che è il nemico del suo popolo, e diventa spietata. La sua «arma» per liberare Israele non vale neppure quanto quella di Samgar! Con un banale piuolo della tenda dà il colpo fatale al nemico.

2 È più o meno la storia di tutte le sette della cristianità.

Come Debora, come ogni donna di fede, Jael non si scosta in nulla dai limiti della sua posizione di donna. Ella esercita il suo ministerio vendicatore nell’interno della sua abitazione, con le armi che la sua tenda può fornirle, e riporta la vittoria in quell’ambito ristretto; poiché anche la donna deve combattere il nemico, ma nel luogo e con le armi particolari che Dio le indica.

Qui la fede brilla nelle donne. Jael non cerca un aiuto come Barak, ma dipende solo dal Signore. Il segreto della sua azione è fra lei e Dio. Ella si serve della sua arma come avrebbe fatto un uomo; un solo tremito della mano avrebbe potuto compromettere ogni cosa. È sola, perché suo marito, il suo protettore naturale, è assente. Sola, ma col Signore, ella combatte sotto la sua tenda, unita col cuore agli eserciti d’Israele. Così Debora, nel suo cantico, dirà di lei: «Benedetta sia fra le donne Jael, moglie di Heber, Keneo; fra le donne che stan sotto le tende sia ella benedetta!» (v. 24). Barak giunge alla tenda di Jael, entra, e vede il nemico finito. Che sentimento d’umiliazione deve aver provato, vedendo l’onore reso da Dio ad una donna, lui che pur essendo capo d’esercito e giudice non aveva avuto il coraggio di farsi avanti!

Sì, onore a queste donne! Dio si servì di loro per risvegliare i figli del suo popolo al sentimento della loro responsabilità; ed essi, una volta risvegliati, sterminarono Jabin, re di Canaan (v. 24).

2.5 Il cantico di Debora (leggere cap. 5)

L’Eterno ha operato una liberazione meravigliosa per mezzo di due deboli donne e di un uomo senza carattere, esaltando in tal modo la sua grazia e la sua potenza con la debolezza dei mezzi che ha usato. Questa vittoria è il segnale del risveglio del popolo. Lo Spirito di Dio celebra questo risveglio per bocca della profetessa. Debora e Barak cantano le benedizioni ritrovate colla liberazione d’Israele.

V. 1. «In quel giorno, Debora cantò questo cantico con Barak, figliuolo di Abinoam». La prima cosa che segue la liberazione è la lode, differente, senza dubbio, in un tempo di rovina da quella che è in un tempo di prosperità. Quando uscirono d’Egitto, «Mosè ed i figliuoli d’Israele cantarono questo cantico all’Eterno» (Esodo 15:1), e tutto il popolo intonò con il suo condottiero il canto della liberazione. Non mancava una voce! Immaginiamoci l’armonia di quelle seicentomila voci, fuse in una sola, per celebrare sulla riva del Mar Rosso la vittoria riportata dall’Eterno. «Io canterò all’Eterno, perché Egli si è sommamente esaltato». E tutte le donne, con a capo Maria, unendosi a quelle lodi, ripetevano le stesse parole: «Cantate all’Eterno perché Egli si è sommamente esaltato». Che contrasto con il cap. 5 dei Giudici! Debora canta con Barak. Una donna e un uomo, due sole persone, due testimoni di un tempo di rovina. Ma l’Eterno è presente, lo Spirito di Dio è là; ed essi, pur essendo testimoni della rovina, hanno di che rallegrarsi e celebrare la grandezza dell’opera dell’Eterno. Il ritorno alla lode è il segno d’un vero risveglio, è il primo bisogno dei figli di Dio che sono ricondotti al sentimento della dignità della loro posizione. Benché il popolo non si sia associato a loro, Debora e Barak riconoscono l’unità del popolo, e la loro lode è l’espressione di ciò che Israele avrebbe dovuto dire.

V. 2. «Perché dei capi si son messi alla testa del popolo in Israele, perché il popolo s’è mostrato volenteroso, benedite l’Eterno!» Il motivo della lode, è ciò che la grazia di Dio ha prodotto nei conduttori e nel popolo. Dio riconosce questo ed incoraggia così i suoi, vacillanti e deboli.

V. 3. «Ascoltate, o re; porgete orecchio o principi! All’Eterno, sì, io canterò; salmeggerò all’Eterno, all’Iddio d’Israele». La lode appartiene esclusivamente ai fedeli. «Io, io», dicono. I re e i principi delle nazioni sono invitati ad ascoltare; ma non hanno alcuna parte a quel cantico, poiché la liberazione d’Israele è la loro rovina.

V. 4,5. «O Eterno, quando uscisti da Seir, quando venisti dai campi di Edom, la terra tremò, ed anche i cieli si sciolsero, anche le nubi si sciolsero in acqua. I monti furono scossi per la presenza dell’Eterno; anche il Sinai là, fu scosso dinanzi all’Eterno, all’Iddio d’Israele». Queste parole ricordano il principio del cantico di Mosè di Deuteronomio 33, al quale il Salmo 68:7-8 fa pure allusione. Qui troviamo un altro principio importante del risveglio: le anime sono spinte a risalire alle primitive benedizioni, cercando ciò che Dio fece al principio, e chiedendosi: «Che cosa ha fatto Dio?». È la nostra sicurezza in un tempo di rovina. Non diciamo come i cristiani infedeli: Adattiamoci ai tempi in cui viviamo. In un tempo che l’apostolo Paolo chiamava «l’ultima ora», i santi avevano per riserva «ciò che era dal principio» (1 Giovanni 1:1).

V. 6-8. «Ai giorni di Shamgar, figliuolo di Anath, ai giorni di Jael, le strade erano abbandonate...». Qui i fedeli riconoscono la rovina d’Israele. Non cercano né di sminuire né di scusare il male, ma lo giudicano come fa Dio. Tre fatti caratterizzano questa rovina:

1. «Le strade erano abbandonate, e i viandanti seguivano sentieri tortuosi». Ecco ciò che il giogo del nemico aveva prodotto. Non vi era più alcuna sicurezza per il popolo sulle strade principali, dove un tempo tutti avevano camminato insieme. Non è forse ciò che caratterizza la Chiesa attuale?

2. «I capi mancavano in Israele; si sceglievano dei nuovi dei, e la guerra era alle porte». L’idolatria era diventata la religione del popolo che aveva abbandonato Dio, era senza guida ed era castigato dalla guerra e da un nemico che lo incalzava senza posa.

3. «Si scorgeva forse uno scudo, una lancia, fra quarantamila uomini d’Israele?». Non c’era più arma contro il male. E oggi? Dove sono adesso le armi? Dov’è la spada dello Spirito? Dov’è la potenza della Parola per resistere alle false dottrine che pullulano in mezzo alla cristianità, rodendo come cancrena e gettando nella polvere il nome meraviglioso di Cristo? Perché, dice il salmista, gettate la mia gloria nell’obbrobrio? Persino lo scudo della fede è stato gettato a terra e il popolo di Dio non può difendersi. In mezzo al disordine, il dovere del fedele è di tener conto della grandezza del male, chinando il capo con umiliazione. Conoscere le nostre benedizioni celesti non è tutto; Dio vuole che riconosciamo sinceramente il nostro stato e come abbiamo disonorato Dio. Se siamo veri testimoni di Dio ritiriamoci dal male. Il carattere più spaventevole dei tempi della fine non è l’immoralità aperta, benché i costumi siano oggi profondamente corrotti; sono soprattutto le false dottrine.

V. 9. «Il cuor mio va ai condottieri d’Israele... voi che v’offriste volonterosi fra il popolo». È un altro principio. L’anima vede il bene dove lo Spirito di Dio lo produce, e vi si associa. Il cuore di Debora è con i fedeli in Israele. Si unisce con quelli che si son comportati con franchezza e, riconoscendo ciò che Dio ha fatto, dice: «Benedite l’Eterno!», felice di vedere fra i capi questa piccola testimonianza. I nostri cuori l’apprezzino, e ripetiamo con lei: «Benedite l’Eterno!».

V. 10-11. «Voi che montate asine bianche...». Debora si riferisce a quelli che godono in pace le benedizioni riconquistate. Le asine bianche sono un segno di ricchezza e di prosperità. Si tratta qui dei figli di famiglie nobili e dei figli dei giudici, che erano gli unici ad avere questo privilegio (vedere cap. 10:4 e 14). È come un appello rivolto a coloro che godono del frutto della vittoria senza combattere. Poi dice ancora: «Voi che sedete in su tappeti», che approfittano di un riposo accompagnato da benessere; «Voi viandanti», quelli che ora godono della sicurezza ritrovata... Debora si rivolge a tutti loro e li invita a «meditare». Essi non hanno contribuito alla vittoria, poiché soltanto alcuni avevano combattuto, ma ne godevano i frutti. Non bisogna dimenticare che quei giorni, per quanto benedetti fossero, non erano i giorni del ristoramento di tutto Israele, così come i risvegli dei giorni nostri non sono un ristoramento di tutta la Chiesa. Benché i vincitori potessero raccontare gli atti di giustizia dell’Eterno, benché il popolo si fosse alzato per scendere alle porte e far fronte al nemico, era tuttavia un tempo di rovina e di ristoramento parziale. Com’è importante per il popolo di Dio dei giorni nostri non dimenticare queste cose!

V. 12. «Déstati, déstati, o Debora: déstati, déstati, sciogli un cantico! Lévati, o Barak; e prendi i tuoi prigionieri, o figlio di Abinoam». Il magnifico Salmo 68, di cui tanti passi ricordano il cantico di Debora (v. 8,9,13,18), celebra il completo ristoramento d’Israele durante il Millennio, in seguito all’esaltazione del Signore. In questo salmo è scritto che il Signore abiterà in mezzo al suo popolo: «L’Eterno vi abiterà in perpetuo» (v. 16). Da dove può venire questa benedizione? Il salmista risponde: «Tu sei salito in alto, hai menato in cattività dei prigionieri; hai preso doni dagli uomini, anche dai ribelli, per far quivi la tua dimora, o Eterno Iddio». Così, le parole di questo cantico, che celebra la pienezza delle benedizioni future, le udiamo uscire dalla bocca d’una debole donna in un tempo di rovina, in cui l’Eterno ha fatto gustare a Israele qualcosa delle benedizioni future. «Levati, o Barak; e prendi i tuoi prigionieri, o figlio di Abinoam». Quale incoraggiamento! Vi sono delle verità particolarmente elevate che sono appannaggio della fede tanto al tempo dei giudici quanto nei tempi difficili che attraversiamo.

Il cantico di Mosè, traboccante della gioia del popolo riscattato dalla schiavitù dell’Egitto, celebrava la liberazione per mezzo della morte, per condurre il popolo alla dimora di Dio, e più tardi al santuario che le sue mani avevano stabilito. Meraviglioso cantico, inno dell’anima che contempla la vittoria che sarà poi riportata da Cristo alla croce, inno in cui il cuore esala, come un profumo, le lodi per la liberazione!

Questa donna, in momenti tenebrosi, intona un cantico che si eleva al di là della morte, l’inno della liberazione per mezzo della risurrezione. «Levati, o Barak!». Noi pensiamo che qui Barak vincitore possa essere un tipo ancora misterioso del Cristo salito alla destra di Dio, che conduce «in cattività un gran numero di prigioni» (Efesini 4:8).

Dal cantico dell’Esodo i tempi erano peggiorati, ma ecco che l’intelligenza profetica d’una donna ci fa salire in alto presentandoci un tipo di Cristo risuscitato. Ella si risveglia. I suoi occhi contemplano una scena gloriosa, Barak che si leva per condurre i prigionieri in cattività. Se le cose enumerate al principio di questo capitolo contraddistinguono il risveglio, ve n’è una che ha un’importanza capitale: la conoscenza d’un Uomo glorioso salito alla destra di Dio, d’un Uomo che i nostri occhi e i nostri cuori cercano in quella scena celeste dove Lui, il vincitore, è entrato, dopo averci liberati con la sua morte e con la sua risurrezione. Fratelli e sorelle, invece di scoraggiarci, non abbiamo noi motivo di ripetere con Debora: «Benedite l’Eterno!»?

V. 13. «Allora scendi, tu, residuo dei nobili, come suo popolo; Eterno, scendi con me fra i prodi!» (così il testo originale; molte versioni che hanno i verbi al passato non rendono la forza di questi passi). Ora Israele è invitato a scendere per combattere e rendere testimonianza in mezzo alla scena in cui Dio lo lascia ancora. Anche in un tempo di risveglio, non possiamo aspettarci di vedere scendere il popolo al completo. Non sarà altro che «il residuo dei nobili» a farlo, ma Dio lo conta come «suo popolo», poiché ai suoi occhi ne è il rappresentante benedetto. Quale gioia dovrebbe provare il cuore dei fedeli vedendo anche un solo testimone staccarsi per Dio dal resto del gregge che, come Ruben, è «rimasto fra gli ovili» (v. 16)! «Eterno, scendi con me fra i prodi». Questo non ci basta, forse? Colui che è salito in alto è il medesimo che scende con noi per darci la vittoria in nuovi combattimenti.

Nei v. 14-18, Dio registra quelli che sono stati per lui e quelli che, per diversi motivi, sono rimasti indietro. Efraim, Beniamino, Zabulon, Issacar, sono scesi con cuore intiero nella via dell’Eterno. Ma ecco che Ruben si arresta alla frontiera, indeciso. Perché? «Perché sei tu rimasto fra gli ovili ad ascoltare il flauto dei pastori?». La tromba di radunamento non era stata ascoltata dal suo cuore. Ruben, troppo prospero, voleva godere tranquillamente le ricchezze che si era acquistate; trovava il suo riposo fra gli ovili, e perciò si ferma ai «rivi» che delimitano le sue frontiere. Ma non dev’essere questa la nostra posizione. Abbiamo noi seguito i prodi che ci han mostrato il cammino? Ci siamo noi fermati alle «grandi risoluzioni di cuore» (v. 15)? Manchiamo noi di decisione nella testimonianza per Cristo? «Galaad non ha lasciato la sua dimora di là dal Giordano». Erano passati i giorni in cui Galaad armato accompagnava i suoi fratelli nelle vittorie di Canaan. Ora, soddisfatto della sua posizione terrena, potremmo dire della sua «religione» terrena, fuori dei confini propriamente detti del paese, al di là del Giordano, egli non provava altro bisogno e così rimane dov’è. «Ascer è rimasto presso il lido del mare, e si è riposato nei suoi porti». Quando si trattava di combattere, questa tribù era indaffarata nei propri affari, nei propri commerci. Non ne sacrifica la minima parte per combattere la battaglia dell’Eterno.

Ma Debora non si ferma alla constatazione del male. Piena di gioia, si compiace nel rilevare ogni tratto di devozione per il Signore: «Zabulon è un popolo che ha esposto la sua vita alla morte e Neftali anch’egli, sulle alture della campagna» (v. 18).

Poi si presenta un altro carattere dei fedeli. Essi non si gloriano, non pensano a loro stessi ma, attribuendo la vittoria a Dio solo, ne proclamano il carattere celeste. «Dai cieli combattè: gli astri, nel loro corso, combatterono contro a Sisera». Questa parte del cantico termina con una maledizione sopra Meroz: «Maledite Meroz, dice l’Angelo dell’Eterno; maledite, maledite i suoi abitanti; perché non vennero in soccorso dell’Eterno coi prodi». Tutti coloro che in questi tempi difficili non si schierano per Cristo, che pur portando il suo nome e quello di popolo di Dio hanno dei cuori indifferenti per lui, sono maledetti. «Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema» (1 Corinzi 16:22).

Nei v. 24-27 Jael è onorata; lei che ha poca forza è benedetta. «Egli chiese dell’acqua, ed ella gli diè del latte; in una coppa d’onore gli offerse della crema». Quando il nemico del popolo di Dio le è comparso davanti, Jael le ha usato grazia; ha cercato ciò che ha di migliore e, onorando la dignità di Sisera, gli presenta il fiore del latte nella coppa dei nobili. È l’opposto del disprezzo. Non è forse così che dobbiamo trattare i nemici di Dio, dando loro per dissetarli e nutrirli più di quel che desiderano? I testimoni di Dio vanno incontro ai peggiori nemici di Cristo con la grazia. Jael è celebrata perché ha agito così; ma leggiamo il seguito: «Con una mano diè di piglio al piuolo, e, con la destra, al martello degli operai: colpì Sisera, e gli spaccò la testa, gli fracassò, gli trapassò le tempie». Ah! il cuore di Jael è nondimeno col Dio d’Israele e con l’Israele di Dio quando è in gioco la verità; quando deve trattare il nemico come tale, allora ella mostra la più grande energia. In quel momento, quella donna fu il vero conduttore degli eserciti dell’Eterno. Ella è al primo rango, onorata da Dio perché ha riportato la vittoria, poiché ha un cuore interamente per il suo popolo. Maledite Meroz, ma sia benedetta Jael!

Un’altra scena accade nel palazzo della madre di Sisera, il cui orgoglio è abbassato sino a terra (v. 28-30). Notate che, malgrado la posizione eminente che Dio le ha dato, Debora mantiene il suo carattere di donna in Israele, e mostra un’intelligenza speciale di ciò che riguarda il dominio del suo sesso, celebrando ciò che onora Jael, la donna ardente, e proclamando ciò che attira il giudizio sulla donna altera. Più tardi, un’altra donna, la regina di Seba, accolta da Salomone, non passerà in rivista gli eserciti di quel re, ma ammirerà «la casa ch’egli aveva edificata e le vivande della sua mensa e gli alloggi dei suoi servi e l’ordine del servizio dei suoi ufficiali e le loro vesti e i suoi coppieri e gli olocausti ch’egli offriva nella casa dell’Eterno» (1 Re 10:4-5), con un’ intelligenza capace d’apprezzare ciò che apparteneva a questo dominio.

Il cantico di Debora termina con queste parole: «Così periscano tutti i tuoi nemici, o Eterno! E quelli che t’amano siano come il sole quando si leva in tutta la sua forza!» (v. 31). Debora proclama la sua speranza; guarda verso il giorno glorioso in cui, dopo che il Signore avrà eseguito il giudizio, i santi d’Israele splenderanno come il sole stesso, simili a Colui il cui viso era, agli occhi del profeta, «come il sole quando splende nella sua forza» (Apoc. 1:16; Matteo 13:43). Nella notte di questo mondo, noi pure, fratelli, abbiamo ben più di Debora questa speranza vicinissima a noi. Già la stella mattutina s’è levata nei nostri cuori; già la fede si rallegra al pensiero della scena meravigliosa che si riassume in una parola ineffabile: essere sempre col Signore!

2.6 Gedeone (leggere cap. da 6 a 8)

a) La parola di Dio colpisce la coscienza (6:1-10)

Malgrado tutte le benedizioni che abbiamo visto al cap. 5, Israele non tarda a ricadere nel male e ad abbandonare l’Eterno. Per castigarlo, Dio lo abbandona nelle mani dei Madianiti. Il popolo passa così attraverso tutte le fasi delle sofferenze materiali che derivano dalla ricerca delle cose del mondo e dall’abbandono di Dio. Sotto Iabin, Israele mancava di armi (5:8); sotto il giogo di Madian, è affamato. Due conseguenze dell’infedeltà che subiamo sempre quando cerchiamo la nostra parte nel mondo. Esso ci toglie le armi; così perdiamo ogni forza e ogni mezzo per combattere. Ma anche i viveri ci mancano, poiché il mondo non ha mai nutrito nessuno, come lo dimostra l’aridità che pervade la nostra anima quando, abbandonato «il midollo e il grasso» della casa di Dio, siamo andati dietro a cose che sono solo un miraggio del deserto. È questa l’esperienza di Israele; i Madianiti non lasciano in Israele «né viveri né pecore né buoi né asini» (v. 4).

Allora, nella sua angoscia, il popolo grida all’Eterno che gli risponde e produce un nuovo risveglio, con cui cerca di colpire la sua coscienza, più profondamente che in passato. È interessante vedere come il Signore agisce per ottenere questo risultato. «L’Eterno mandò ai figliuoli d’Israele un profeta» (v. 8). Non si conosce il suo nome, ma non importa, poiché quest’uomo è semplicemente il portatore della Parola di Dio per mettere il popolo nella Sua presenza. Dio ha un mezzo per benedirci, cioè la sua Parola che risponde a tutto e deve bastarci perfettamente.

Il Salmo 119 ci presenta la parte meravigliosa che la Parola ha nella vita del fedele. Questo salmo è il più lungo. La Parola di Dio dovrebbe occupare lo stesso posto nella nostra vita! Abbiamo noi la consapevolezza del suo valore? Riempie essa i nostri giorni e le nostre notti, o almeno occupa essa i nostri pensieri, quando ci manca il tempo per sederci e meditarla?

Dio applica questa Parola in un modo pieno di grazia (v. 8-10) alla coscienza degli Israeliti, dicendo tutto quello che ha fatto per loro, come l’uscita dall’Egitto, la liberazione dai nemici, la vittoria e l’entrata in Canaan; e, dopo aver spiegato tutta la sua bontà, aggiunge una sola parola: «Ma voi non avete dato ascolto alla mia voce». Non fa una parola del «come» possono essere liberati; la via per ritornare a Lui non è ancora aperta. Il profeta scompare, lasciandoli sotto il peso della loro responsabilità in presenza della grazia. Non aveva Dio combattuto per loro? Ed ora e come se chiedesse loro: Ho mancato io verso di voi? e voi cosa avete fatto? Questo silenzio deve raggiungere la coscienza molto più di tutti i rimproveri! Infatti la coscienza è colpita, ma la parola di grazia non dà ancora al popolo infedele ciò di cui ha bisogno. Israele è ancora senza forza in presenza del nemico.

b) Gedeone formato per il servizio (6:11-40)

Il rimanente di questo capitolo ci mostra in che modo Dio opera per suscitare un servitore in quei tempi di rovina e formare uno strumento potente che compia la liberazione.

Ma, anzitutto, teniamo presente una verità di carattere generale. Quando il popolo di Dio, nel suo insieme, ha perduto ogni forza, l’anima può trovare, individualmente, una forza molto grande, come ai tempi più prosperi. Quanto ardentemente i nostri cuori dovrebbero desiderare di possedere questa forza! Non ci adagiamo nella debolezza, mettendoci al livello di ciò che ci circonda, accettando passivamente la mondanità della famiglia di Dio come una cosa inevitabile. Abbiamo noi le orecchie attente che ha avuto Gedeone quando Dio ci dice: Ho a tua disposizione una forza illimitata?

Passiamo ora alla storia di quest’uomo di Dio. Personalmente era ancora più debole del suo popolo: il suo grano nello strettoio era senza sicurezza (v. 11); lui era senza risorse nella sua parentela, perché il suo migliaio era il più povero in Manasse; era senza forza in se stesso, poiché egli era il più piccolo della casa di suo padre (v. 15). Dio visita un tale uomo, e sceglie per servitore proprio lui, cosciente della sua assoluta mancanza di forza e che dice: «Ah, Signor mio, con che salverò io Israele?». Quando si tratta dell’opera di Dio in questo mondo, troviamo un primo e grande principio; vale a dire che Dio non chiede ciò che l’uomo potrebbe offrirgli e non vi fa caso. Per glorificarsi, adopera degli strumenti deboli, consapevoli della loro infermità.

Ma vi è un altro principio di somma importanza: quest’opera esige che tutto sia da Dio. Prima che l’angelo del Signore si sedesse sotto la quercia, Gedeone aveva già la fede. Credeva alla parola di Dio che gli era stata trasmessa dai suoi padri (v. 13); inoltre, si era identificato col popolo di Dio: «Se l’Eterno è con noi»; «l’Eterno ci ha abbandonati», egli dice. Gedeone portava con gli Israeliti il peso delle conseguenze della loro colpa. Il rispetto per la parola di Dio e l’affetto per il suo popolo dimostrano l’esistenza della vita di Dio in lui, come nei fedeli di ogni tempo.

Tuttavia, Gedeone ha molto da imparare. La sua fede è debolissima, poiché ignora la bontà di Dio. È umile, senza dubbio, ma ha lo sguardo rivolto solo su se stesso. «Ma ora il Signore ci ha abbandonati». Come per lui, una delle conseguenze della nostra infedeltà è la mancanza di speranza. Così ragiona Gedeone, ma Dio non ragiona così? «L’Eterno è con te, o uomo forte e valoroso!» Ah! quanto poco conosciamo quello che c’è nel cuore di Dio, e quante volte ragioniamo come lui! Per di più, malgrado la sua umiltà, Gedeone non ha ancora imparato a condannare se stesso. Egli desidera offrire qualche cosa, «recare la sua offerta» all’Eterno (v. 18). Senza dubbio non è col pensiero di fare una gran cosa per Dio, ma egli pensa che tutto andrà bene se Dio accetterà la sua offerta. Vedremo in seguito la risposta dell’Eterno. Ma torniamo al principio enunciato più sopra, vale a dire che Dio solo entra in scena nell’opera di liberazione del suo popolo.

In primo luogo, «l’Angelo dell’Eterno gli apparve». Come a Saulo sulla via di Damasco, Dio incomincia col rivelare Se stesso all’anima di tutti i suoi servitori nella persona di Gesù. In secondo luogo, l’Eterno si rivela a Gedeone come associandosi a lui: «L’Eterno è teco». In terzo luogo, Egli dà un carattere a Gedeone: forte e valoroso, carattere che Gedeone, debole com’era, non si sarebbe mai sognato di ottenere. In quarto luogo, l’Eterno lo guarda con grazia per rivelarsi non più «a lui», ma «in lui», come il Dio di potenza. Se Gedeone non ha forza, l’Eterno ne ha per lui; è il segreto che gli fa conoscere, quando gli dice: «Cotesta tua forza». In quinto luogo è Lui che lo manda: «Va’ con cotesta tua forza». Infine, Dio gli dà la prova certa del suo interessamento per lui.

Abbiamo visto che Gedeone vorrebbe offrire qualche cosa all’Eterno, ma Egli non può accettare nulla dall’uomo. «Prendi — gli dice — la carne e le focacce azzime, e mettile su questa roccia, e versavi su il brodo (v. 20). La sola offerta che Dio possa accettare è Cristo; e se non accetta l’offerta di Gedeone, accetta però ciò che in quell’offerta rappresenta Cristo. Quest’uomo di Dio ha una conoscenza assai scarsa del valore dei sacrifici che l’Eterno aveva ordinato ai figliuoli d’Israele; la carne «bollita», «il brodo nella pentola», erano testimoni della sua ignoranza. Ma Dio discerne la realtà che questa debole fede racchiude, e accetta l’offerta, quando Gedeone la posa «sulla roccia». Il fuoco del giudizio sale dalla roccia (v. 21), consumando la carne ed i pani azzimi. La prova dell’amore di Dio per lui è in quel fuoco, figura del giudizio caduto su Cristo!

Ma bisogna che il servitore impari ancora a conoscere il valore di quest’opera per se stesso. Dapprima è spaventato: «Misero me, o Signore, o Eterno! giacché ho veduto l’Angelo del Signore, faccia a faccia!». «E l’Eterno gli disse: stà in pace, non temere, non morrai!». Per Gedeone, la conseguenza del fuoco sulla sua offerta è la pace. Per essere un servitore di Dio, occorre aver ricevuto personalmente la conoscenza dell’opera di Cristo e la pace che ne risulta, la certezza d’una pace compiuta in virtù di ciò che alla croce è avvenuto fra Dio e Cristo, la sicurezza di ciò che Dio, e non Gedeone, pensa di un tale sacrificio. Questa è la base di ogni servizio cristiano. Se non possediamo noi la pace, come potremo proclamarla ad altri?

Notiamo che, in conseguenza di ciò che ha imparato, Gedeone non si mette subito al servizio, ma adora. «Allora Gedeone edificò quivi un altare all’Eterno e lo chiamò: L’Eterno pace». Prima di servire, il credente deve presentarsi a Dio come adoratore. La Parola illustra questo fatto in molti casi, come nel caso di Abrahamo e del cieco nato. Gedeone loda il Dio di pace e può ora offrire sull’altare un sacrificio che l’Eterno accetta.

È soltanto dopo l’altare dell’adorazione che Dio chiama Gedeone a rendere una testimonianza pubblica, come servitore. E questa incomincia dalla casa paterna. Prima di tutto bisogna distruggere «l’altare di Baal e l’idolo che gli sta vicino» e sostituire a questi l’altare della testimonianza, l’altare del Dio che Gedeone conosce. Ahimè, molti cristiani non hanno questi due altari.

Il dovere del testimone di Dio è innanzi tutto quello di distruggere i propri idoli — cominciamo, come Gedeone, nella nostra famiglia —, perché il segreto della potenza sta appunto nel liberarsi dagli idoli. Lo Spirito dell’Eterno investì Gedeone soltanto dopo ch’egli ebbe compiuto quest’atto. Noi non abbiamo dei «Baal» di pietra, ma abbiamo molti altri idoli e li preferiamo sovente alla potenza d’un cammino fedele con Dio. Gedeone ubbidisce senza esitare, senza compromessi. Per lui, gli idoli non son nulla paragonati a quel Dio ch’egli conosce.

Quest’uomo «forte e valoroso» non ha coraggio; ha paura del nemico (v. 11), paura di Dio (v. 23), paura della casa di suo padre (v. 27). Così compie la sua opera di notte, temendo di farla di giorno; nondimeno la compie, perché Dio gliel’ha comandato. La gente della città se ne accorge soltanto al mattino. L’Eterno, che conosceva il carattere di Gedeone, non gli aveva detto: Fallo di giorno. Dio sa che siamo deboli e non pretende l’impossibile; distruggiamo pure i nostri idoli in silenzio, quando nessuno ci osserva, ma distruggiamoli! Non proclamiamo questo fatto ad alta voce; compiamo questo lavoro difficile con timore e tremore, guardando a Dio solo nel silenzio della notte. Il mondo si accorgerà che abbiamo un nuovo altare ch’esso non conosce; e allora incomincerà ad odiarci!

È l’altare che attira su Gedeone l’ira di tutti. Ma che importa? Egli riceve il nome di Jerubbaal, che significa «difenda Baal la sua causa», e diventa in presenza di tutti il testimone di quanto fossero vane le cose che un tempo adorava. La testimonianza di Gedeone convince suo padre della nullità di Baal. È già qualcosa. La fede del padre è minore di quella del figlio; Gedeone distrugge Baal perché ha conosciuto Dio, Joas, suo padre, riceve Dio perché non riconosce più Baal.

Fratelli miei, siamo noi, davanti al mondo i testimoni dell’assurdità e della follia di tutto ciò dietro cui il mondo corre? Il segreto della potenza sta in un’ubbidienza totale alla Parola di Dio. Capita che in certi momenti della nostra vita ci sia potenza nel nostro servizio, e in altri no. Chiediamoci se non abbiamo riedificato qualche idolo distrutto! Non vi è azione pubblica che non cominci, per il cristiano, dalla fedeltà nella ristretta cerchia dove è chiamato a vivere. Gedeone, per la sincerità della sua testimonianza, soffre l’inimicizia di quelli che portano il nome di popolo di Dio, ma i nemici, Madian e Amalek (v. 33), vedono in ciò che Gedeone ha fatto un pericolo per il loro dominio su Israele. Se, nella loro follia, gli uomini della città cercano di intralciare la loro stessa liberazione, il mondo si sforza di soffocare quel risveglio che avrebbe tirato fuori Israele dalla schiavitù.

Fin qui, Gedeone non aveva compiuto altro che un atto di ubbidienza; ora, lo Spirito del Signore lo investe, e il suo primo atto di potenza è quello di suonare la tromba per radunare le tribù. La forza d’Israele sta nel suo radunamento al seguito dell’Eterno; questo è ciò che Satana e il mondo temono di più. Tuttavia Gedeone, forte ma con poca fiducia in Dio, chiede dei segni per sapere se l’Eterno vuole salvare il popolo per mezzo di lui. Tutti gli ordini dati da Dio a Gedeone sono semplici e chiari; ma quando Gedeone chiede dei segni a Dio, tutto si complica. Abbiamo difficoltà a comprendere il suo pensiero. Suppongo che il vello per Gedeone rappresentasse Israele benedetto da Dio mentre la siccità rimaneva sulle nazioni, e viceversa, poiché Gedeone sottomette Dio ad una controprova 3. Debole fiducia! Ma il Dio di grazia fa ciò che il suo servitore domanda. Egli vuole liberare il suo popolo, vuole sostenere il debole cuore del suo testimone per introdurlo nel suo servizio e farne uno strumento per la sua gloria.

3 Il vello, la pelliccia di un agnello, è anche una bella figura di Cristo, nella sua perfetta umanità. Se tutte le benedizioni di Dio (la rugiada) fossero state su di Lui, il mondo (il terreno) ne sarebbe stato privato per sempre. Ma quando, nelle tre ore di tenebre, Dio colpì il suo Figlio sulla croce carico dei nostri peccati (il vello asciutto in «quella notte») sul mondo poterono riversarsi la grazia e il perdono di Dio.

c) Caratteri dei testimoni di Dio in un tempo di rovina (leggere cap. 7:1-4)

Al cap. 6 abbiamo visto il servitore preparato per l’opera alla quale Dio lo destina; i versetti che abbiamo letto adesso ci mostrano i caratteri dei testimoni di Dio in quei tempi difficili.

Sotto Giosuè, nell’epoca di prosperità morale, quando si trattava di combattere, tutto Israele saliva alla battaglia e l’unità del popolo si manifestava così in un modo sorprendente. L’unica eccezione a questa regola fu la battaglia di Ai (Giosuè 7:1-5) che ebbe per risultato la sconfitta di quelli che vi presero parte. Durante la decadenza, invece, le cose vanno diversamente. Quando tutto il popolo sale con Gedeone, l’Eterno gli dice: «La gente che è teco è troppo numerosa perché io dia Madian nelle sue mani», perché c’era il pericolo che Israele si gloriasse contro l’Eterno dicendo: «La mia mano mi ha salvato». Nel tempo della decadenza, Dio reprime in modo particolare l’orgoglio che pretende di avere parte nell’opera che appartiene a Dio solo. La cristianità attuale si vanta del numero dei suoi aderenti, e crede di vedere in questo una prova dell’opera di Dio. Se Dio produce del bene, essa l’attribuisce a sé, come Laodicea, e si gloria dei suoi mezzi: «Io sono ricco, e mi sono arricchito, e non ho bisogno di nulla».

Secondo carattere: «Chiunque ha paura e trema, se ne torni indietro e s’allontani dal monte di Galaad». Anche Mosè aveva ordinato questo ai figli di Israele: «C’è qualcuno che abbia paura e senta venirgli meno il cuore? Vada, torni a casa sua, onde il cuore dei suoi fratelli non abbia ad avvilirsi come il suo» (Deuteronomio 20:8). Questo passo ci insegna che i paurosi e i timorosi hanno qualcosa da perdere. Un servitore di Dio che non ha nulla da perdere in questo mondo, perché l’eccellenza di Cristo gli fa disprezzare i beni di quaggiù, è coraggioso per la sua opera. Ahimè! il numero dei paurosi è grandissimo ai giorni nostri; come allora, quando ventiduemila uomini se ne tornarono a casa loro e non ne restarono che diecimila.

Per compiere l’opera sua, Dio vuole dei cuori che non abbiano nulla da perdere, che non si spaventino di nulla, e che non abbiano ad esercitare un’influenza deleteria su quelli che si sono incamminati sulla via della testimonianza e del combattimento senza l’imbarazzo degli affari di questa vita. I ventiduemila sono incapaci dello sforzo del combattimento; approfitteranno della «testimonianza» resa dagli altri ma non sono qualificati per portarla loro stessi.

I veri testimoni hanno un terzo carattere. Dio li mette alla prova perché quelli che sono destinati a vincere devono manifestare di essere disposti a perdere tutto. «Gedeone fece dunque scender la gente all’acqua». Si metteranno «in ginocchio» per bere, oppure «lambiranno l’acqua con la lingua» come la lambisce il cane? Alcuni, quindi, si mettono a loro agio per godere abbondantemente delle benedizioni che la provvidenza di Dio ha posto sul loro sentiero; gli altri, non avendo altro scopo che quello di riportare la vittoria, assaggiano l’acqua di sfuggita, solo come incoraggiamento per il loro servizio. Era stato profetizzato del Signore Gesù: «Egli berrà dal torrente per via» (Salmo 110:7). Quando, per così dire, «beveva» a quel modo, la sua faccia era volta risolutamente verso Gerusalemme, il luogo della sua agonia e della sua morte (Luca 9:51).

Nulla ostacola di più l’azione del cristiano nella testimonianza come il godere delle proprie comodità, il soffermarsi alle benedizioni terrene che la provvidenza di Dio gli accorda, invece di gustarne di sfuggita. Il nostro cristianesimo attuale si mette sulle ginocchia per bere; forse rende grazie a Dio, ma vede nella benedizione terrena l’oggetto e lo scopo della sua pietà; mentre i testimoni di Dio ne prendono in quantità appena sufficiente per continuare il loro cammino e il loro servizio. Inoltre, quei trecento che lambivano l’acqua come il cane e bevevano nel cavo della mano, portandola alla bocca erano non solo dei consacrati, ma umili. Assomigliavano a quella povera donna Sirofenice che, paragonata a un cane, risponde: «Sì, Signore», felice di dover dipendere soltanto dalla grazia (Marco 7:28). Dio vuole dei testimoni devoti e umili.

Allora, questi uomini prendono in mano le trombe del popolo, simbolo della testimonianza, ed anche delle vettovaglie (v. 8). Non possiamo vincere senza essere nutriti. Lo stato del popolo sotto il giogo terribile di Madian, che non lasciava dei viveri in Israele, ne era la dimostrazione.

Prima del combattimento, anche Gedeone deve fare due esperienze personali che lo fortificano per la vittoria (v. 9-14). La prima è che, quanto a se stesso, non vale più dei ventiduemila timidi. L’Eterno infatti gli dice: «Se hai paura di scendere...» (v. 10). Come risponde lui? Io sono coraggioso, ho suonato già la tromba ai quattro venti per radunare Israele alla battaglia? No. Egli accetta quest’umiliante verità. Allora Dio lo mette in presenza dei nemici, che nella valle erano numerosi come locuste, e gli traccia il suo ritratto per bocca d’uno di loro. Gedeone, «forte e valoroso», è paragonato a un «pane d’orzo», nutrimento povero e grossolano; questa è «la spada di Gedeone»! (v. 13-14). Bella spada per colpire quella folla di nemici! Ma la spada di Gedeone è «la spada dell’Eterno» (v. 20), ed in ciò sta la sua potenza.

Gedeone impara così a conoscersi, ma Dio gli rivela anche lo stato morale del nemico contro cui dovrà combattere. È un nemico vinto. «Nelle sue mani — dice il Madianita al suo compagno — Iddio ha dato Madian e tutto il campo» (v. 14). Voglia Dio accordarci di capire di più questa verità, in rapporto coi nostri tre nemici: la carne, il mondo e Satana. La carne è crocifissa, il mondo è vinto, Satana è giudicato. Questo ci infonde coraggio. Gedeone realizza tutte queste cose e adora (v. 15).

d) In che cosa consiste la testimonianza (leggere cap. 7:1525)

La risposta alla domanda: in che cosa consiste la testimonianza di Dio e come essa agisce in un tempo di rovina, sta nel passo che abbiamo letto or ora. Pieno di gioia e di fiducia, Gedeone ritorna al campo d’Israele. «Levatevi poiché l’Eterno ha dato nelle vostre mani il campo di Madian». Poi, divide quei trecento uomini in tre schiere, e dà a tutti «delle trombe e delle brocche vuote con delle fiaccole dentro le brocche». Questi tre oggetti sono gli elementi della testimonianza di Dio nella lotta contro Satana e il mondo.

Al cap. 10 dei Numeri (v. 1-10) troviamo in dettaglio il compito delle trombe. Erano la voce di Dio per comunicare al popolo il suo pensiero in quattro occasioni importanti: davano il segnale del radunamento, il segnale della partenza durante le marce, il segnale del combattimento, il segnale delle feste solenni o del culto. Ciò che un tempo il suono delle trombe rappresentava per Israele, lo troviamo oggi in modo ben più prezioso nella Parola di Dio. Tramite essa Dio ci parla; essa regola e dirige il radunamento dei credenti, il cammino, il combattimento, il culto dei figli di Dio. Quando queste cose sono dimenticate al giorno d’oggi!

«Gedeone suonò la tromba, e gli Abiezeriti furono convocati a seguirlo» (6:34). Egli è il portatore della voce divina per radunare Israele disperso a causa delle sue colpe. Fratelli, abbiamo noi a cuore il radunamento dei figli di Dio? Prendiamo allora la Parola di Dio, facciamo udire la sua voce ai credenti non più abituati ad udirla.

La tromba suonava anche per la marcia. Anch’essa non può avere altra regola che la Parola di Dio. Le divergenze nel cammino dei santi hanno per causa l’abbandono d’essa. Non cammineremmo forse tutti «nello stesso sentiero» se i cuori di noi tutti fossero dipendenti da questa Parola, regola infallibile di ogni nostro passo?

La tromba chiamava al combattimento, e qui giungiamo alla scena del nostro capitolo. La testimonianza di Dio è inseparabile dal combattimento, poiché essa non consiste soltanto nel radunamento e nel cammino, ma anche in una posizione franca di fronte al mondo, nemico di Dio. Dobbiamo proclamare ad alta voce che siamo, senza compromessi, in lotta col mondo. Il combattimento ha due scopi: ci mette in possesso dei nostri privilegi (è il soggetto del libro di Giosuè) e libera il popolo di Dio soggiogato dal nemico per la sua infedeltà (com’è considerato nel libro dei Giudici). In Giosuè, tutto Israele deve salire alla conquista di Canaan; qui, la lotta è riservata a un certo numero di testimoni, campioni dell’Eterno per la liberazione del suo popolo.

La tromba squillava anche per le feste solenni. Solo la Parola di Dio definisce e regola il culto di adorazione. Ci limitiamo ad accennare soltanto a questo soggetto, ma non è il caso che lo trattiamo qui.

Le brocche vuote sono un secondo elemento della testimonianza. Senza dubbio, erano vasi che avevano contenuto i viveri del popolo (v. 8). Ora erano vuote e non avevano alcun valore; ma Gedeone, istruito da Dio, sa farne uso alla Sua gloria. Un passo della Parola (2 Corinzi 4:1-10) fa allusione a questa scena quando Paolo parla della posizione ch’egli prende come testimone di fronte al mondo. Egli deve «manifestare la verità», portare «la luce dell’evangelo della gloria di Cristo» davanti agli uomini; poi aggiunge (v. 7): «Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché l’eccellenza di questa potenza sia di Dio e non da noi». Un vaso di terra! Tale era «la carne mortale» del grande apostolo dei Gentili. Le brocche vuote rappresentavano ciò che Gedeone e i suoi guerrieri erano in se stessi. La lezione che il loro capo aveva imparato al campo di Madian doveva pure essere realizzata individualmente dagli altri trecento. Come il vaso di terra di Paolo, quelle brocche vuote non avevano valore, dovevano essere rotte. Quando Dio suscita una testimonianza, si glorifica solo per mezzo di strumenti ch’egli «spezza». Egli porta il suo Evangelo alle nazioni per mezzo di un Saulo gettato prima nella polvere sulla strada di Damasco, e glorifica l’eccellenza della sua potenza in un Paolo ch’Egli continuerà a disciplinare fino alla fine. «Noi siamo tribolati in ogni maniera — dice l’apostolo — ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati; perseguiti, ma non abbandonati; atterrati, ma non però uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù...».

A che servivano dunque quelle brocche vuote? A contenere le fiaccole, terzo e supremo elemento della testimonianza di Dio; a portare quel tesoro che è la luce divina, affinché, come dice Paolo, la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Corinzi 4:10). Se le trombe rappresentavano la Parola di Dio in testimonianza, e le brocche noi stessi nella nostra debolezza umana, cosa saranno le fiaccole se non la vita di Cristo, la luce di Cristo? Così, i due primi elementi (brocca e fiaccola) non servono che a produrre il terzo, la luce fra le tenebre.

Gli uomini di Gedeone suonano le trombe e rompono le brocche (7:19), e la luce risplendè attorno a loro. È la stessa cosa per i testimoni attuali: «Poiché noi che viviamo, siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù». È Dio stesso che si occupa di rompere i vasi «onde anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale» (2 Corinzi 4:11). Non è detto: la vita di Cristo, ma quella di Gesù, la vita di quell’uomo che ha attraversato il mondo in santità. Siamo chiamati a rappresentare quaggiù l’uomo Cristo Gesù, come Egli ha vissuto su questa terra, per rendergli una buona testimonianza.

Non vi è un solo cristiano in questo mondo che non possa essere il portatore di questi tre elementi della testimonanza di Dio. Perché dunque ne esistono così pochi? Perché non usiamo questi elementi come Dio vuole. Bisogna che la tromba sia suonata, che le brocche siano rotte, che la lampada non sia messa sotto il moggio. Se siamo a nostro agio quaggiù, se in questo mondo abbiamo sempre tutto ciò che ci piace, se siamo amati, rispettati dagli uomini, se non abbiamo mai fatto qualcuna delle esperienze dell’apostolo Paolo, tribolazioni, perplessità, persecuzioni, probabilmente siamo infelici, perché abbiamo poco per Dio. Dio non ci potrà giudicare degni di portare qualche raggio della luce di Cristo davanti al mondo. Beati quelli che sono «rotti»! «Beati.... beati», diceva il Signore; e aggiungeva: «Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli» (Matteo 5:12).

I trecento, stando al posto loro assegnato attorno al campo, gridavano: «La spada dell’Eterno e di Gedeone!». E il nemico, il mondo, è sbaragliato da questo semplice grido! Rendete testimonianza a Cristo, rappresentatelo in modo vivente, non tenete conto di voi stessi. La vostra unica arma sia la spada a due tagli del Signore. Tutta la potenza di Satana e del mondo non potranno resistervi.

Occupati del loro compito glorioso, Gedeone e i suoi compagni non pensano minimamente di andare a sedersi sotto le tende di Madian, che il giudizio di Dio stava per rovesciare; anzi, trovano la loro sicurezza e la loro forza, malgrado le loro brocche rotte, nel suono delle trombe squillanti d’Israele e nella luce delle torce risplendenti di Dio. La testimonianza produce testimonianza. I trecento sono ora adoperati per radunare il resto del popolo. Gli uomini d’Israele si uniscono e inseguono Madian (v. 23), e tutti gli uomini d’Efraim si radunano (v. 24) ed hanno parte all’inseguimento ed al bottino. Vedremo anche noi questo risultato se siamo fedeli. Se siamo dei testimoni di Cristo risveglieremo lo zelo dei nostri fratelli. Come sarebbe bello se Gesù, al suo ritorno, trovasse non solo alcune centinaia, ma un popolo intero di testimoni che hanno combattuto, sono stati saldi e hanno vinto per lui!

e) Difficoltà ed insidie nel servizio (leggere cap. 8:1-23)

Se camminiamo con Dio e portiamo la sua testimonianza, troveremo ogni sorta di difficoltà sul nostro cammino. Al capitolo precedente, vediamo che Gedeone ed i suoi trecento compagni ne hanno incontrate alcune. Il loro combattimento non era esente da sofferenze. Essi dovevano rinunciare alle gioie, alle comodità, e ristorarsi solo nella misura minima necessaria per raggiungere lo scopo. Il capitolo 8 ci presenta altri aspetti delle loro sofferenze.

Gli uomini d’Efraim contestano Gedeone. Al tempo di Debora quelli di Efraim erano stati al posto d’onore (5:14), ma da allora erano andati in decadenza. Gedeone, guidato da Dio, non li aveva chiamati; erano passati in secondo piano. Ora sono gelosi di ciò che l’Eterno aveva affidato ai loro compagni, gelosi dell’energia della fede e dei suoi risultati negli altri. «Che azione è questa ci hai fatto?» (v. 1). Gli Efraimiti, preoccupati della loro importanza, pensano a se stessi invece di pensare a Dio. Questa è la sorgente di molte contestazioni tra fratelli, mille volte più penose e delicate dei molti combattimenti col mondo.

È prezioso vedere l’uomo di Dio attraversare questa difficoltà nella potenza dello Spirito. Il libro dei Giudici ci offre tre esempi di simili contestazioni: questo di Gedeone, quello di Jefte e quello delle undici tribù contro Beniamino. Qui il male è scongiurato e la rottura evitata. Ma non fu così più tardi. Quando delle dispute sorgono fra cristiani, quale è la risorsa? L’umiltà. Gedeone l’aveva imparato alla scuola di Dio, ed ora non gli è difficile realizzarlo. Dio gli aveva fatto capire che il suo coraggio e la sua forza non erano sue prerogative personali, e che «la spada di Gedeone» non aveva in se stessa più valore di un semplicissimo pane d’orzo. Perciò, in presenza di Efraim, il servitore del Signore, adoperato da Lui per questa grande liberazione, non parla di se stesso, ma di ciò che Dio ha fatto per mano sua e dei suoi fratelli. «Che ho fatto io al paragone di voi? La racimolatura di Efraim non vale meglio della vendemmia d’Abiezer?»

Gedeone attribuisce a sé l’ultimo posto e riconosce che avevano avuto l’onore di compiere, malgrado tutto, il mandato di Dio. Un grande difficoltà è in tal modo superata grazie alla sua umiltà. Ci sia accordato di agire sempre così! Quando parliamo dei nostri fratelli, non enumeriamo i loro difetti, bensì le cose che Dio ha prodotto in loro. Non posso forse ammirare Cristo nel mio fratello se vedo Dio alle prese con lui per «spezzarlo» e fare emergere in lui, ad ogni costo, il carattere del Signore? Nulla calma meglio le contese come il vedere Cristo negli altri.

Poi Gedeone ed i suoi compagni si imbattono in un secondo ostacolo ancora più grave delle contestazioni di prima. Pur essendo stanchi, essi continuavano a inseguire i Madianiti (v. 5), provando nei loro corpi quel «disfacimento» giornaliero che provano tutti i credenti che proseguono con perseveranza nella loro testimonianza pur di raggiungere lo scopo (2 Corinzi 4:16; Filippesi 3:12). Essi giungono davanti a Succoth, città di Israele che apparteneva alla tribù di Gad. Ma Succoth li respinge, rifiutando persino di dar loro del pane. Vi era dunque, in mezzo al popolo di Dio, una città intera che, pur portando il nome d’Israele, aveva rotto ogni solidarietà coi testimoni dell’Eterno, «Tieni tu forse già nelle mani i polsi di Zebah e di Tsalmunna (i due re di Madian, v. 2) — rispondono essi — che noi abbiamo da dar del pane alla tua gente stanca». Quelli di Succoth, evidentemente, avevano fiducia nel nemico e non volevano compromettersi parteggiando per Israele. Oggi è grande il numero di coloro che portano il nome di Cristo pur ricercando l’alleanza e l’amicizia del mondo. Essi, per timore di compromettersi, fanno causa comune coi nostri nemici, e metterebbero facilmente degli ostacoli sul sentiero dei credenti per impedire loro di vincere. Non meravigliamocene. Una giusta indignazione non ci fermi sul nostro cammino per castigare questo spirito. Occorre che i nostri cuori, come quello di Gedeone, siano interamente dediti al combattimento per il Signore.

L’uomo di Dio continua la sua marcia; neppure un analogo comportamento degli abitanti di Penuel lo ferma. Satana cerca di creare degli ostacoli, ma Zeba e Salmunna non debbono sfuggire a Gedeone; il giudizio delle città ribelli sarà esercitato più tardi. E, al suo ritorno, l’uomo di Dio esercita la disciplina e «toglie il malvagio» (1 Corinzi 5) poiché sarebbe disonorevole per Dio tollerare il male.

Vediamo, in tutta questa storia, come si abbinavano in Gedeone l’umiltà e l’energia della fede: l’energia, per radunare e purificare il popolo, per combattere ed inseguire il nemico; l’umiltà che toglie ogni fiducia in se stessi e fa cercare la forza nel Signore. Tuttavia, è proprio dal lato in cui sembrava ch’egli avesse meno bisogno di vigilanza, che il nemico gli tenderà un laccio e produrrà alla fine uno stato di rovina morale proprio in lui che conduceva Israele!

I re vinti non risparmiano a Gedeone le parole di lode (v. 18-21), molto pericolose perché nascondono dei motivi interessati. Egli chiede loro: «Come erano gli uomini che avete uccisi al Tabor?». Ed essi risposero: «Erano come te; ognun d’essi aveva l’aspetto d’un figlio di re».

Diffidiamo delle adulazioni del mondo. Il semplice senso cristiano dovrebbe dirci che il mondo ci lusinga per indebolirci e toglierci le armi con le quali lo combattiamo. Ma le loro parole non distolgono Gedeone dalla via di Dio, anche se pare ch’egli perda la nozione reale della potenza dell’avversario, e la sottovaluti invece di temerla. Non fu così di Giosuè quando fece prigionieri i cinque re (Giosuè 10:22-27). Lungi dallo sminuire la forza del nemico agli occhi degli uomini d’Israele, egli disse loro: «Accostatevi, mettete i piedi sul collo di questi re... Non temete e non vi sgomentate, siate forti e fatevi animo», cosciente da un lato della potenza del mondo e dall’altro della forza dell’Eterno. Due cose ci abbisognano quando siamo alle prese col nemico: il timore ed il tremore in quanto a noi stessi; e una perfetta sicurezza in quanto a Dio, poiché sappiamo che Satana ed il mondo sono nemici vinti.

Gedeone realizza imperfettamente queste cose. Affida a suo figlio Iether l’incarico di uccidere quei due re. «Ma il fanciullo non trasse fuori la spada, perché aveva paura». Al cap. 7 l’Eterno aveva eliminato quelli che avevano paura e li aveva ritirati dal combattimento; qui Gedeone, affidando a un fanciullo l’uccisione d’un nemico ch’egli disprezza, non è in comunione con le vie divine. Dio non chiama dei fanciulli nella fede a compiere pubblicamente degli atti rilevanti; un fanciullo va a scuola e non alla guerra.

Allora quei re gli dicono: «Levati tu stesso, e dacci il colpo mortale poiché quale è l’uomo, tale è la sua forza». Ecco una nuova lusinga, contro cui Gedeone avrebbe dovuto protestare, poiché aveva imparato una lezione ben diversa alla scuola di Dio. Infatti, la sua forza era proprio l’opposto di ciò che l’uomo era. Non l’aveva imparato quando l’angelo del Signore gli aveva detto «Va’ con cotesta tua forza» anche se lui era il più piccolo della casa di suo padre? Ed egli non se n’era forse reso conto nella notte solenne in cui Dio gli aveva rivelato che un pane d’orzo avrebbe rovesciato tutte le tende di Madian? In giorni migliori, Gedeone non avrebbe accettato queste adulazioni, né avrebbe lasciato che l’avversario piantasse nel suo cuore un pericoloso germe di fiducia in se stesso.

Ma eccolo alle prese con una nuova insidia (v. 22-23). Non è la lusinga del mondo, ma l’adulazione del popolo di Dio. «Gli uomini d’Israele dissero a Gedeone: Regna su noi tu e il tuo figliuolo, e il figliuolo del tuo figliuolo; poiché tu ci hai salvati dalla mano di Madian». In tal modo essi mettono il loro conduttore al posto dell’Eterno e gli offrono lo scettro: «Regna tu su noi». La cristianità professante è sempre pronta a stabilire un clero; e questa è purtroppo una tendenza innata anche nel cuore naturale dei veri credenti. Il buon risultato d’un ministerio ci induce a fare del «servitore» un «ministro» nel senso umano, perdendo di vista Dio. Qui, per la Sua grazia, la fede di Gedeone sfugge a un tale pericolo, e risponde risolutamente: «Io non regnerò su voi, né il mio figliuolo regnerà su voi; l’Eterno è quegli che regnerà su voi». Lo scopo del suo ministerio è che Dio abbia la preminenza e non perda nulla della sua autorità sul suo popolo.

f) L’efod di Gedeone (leggere cap. 8:24-35)

Fin qui, Gedeone è stato meravigliosamente guardato in mezzo a pericoli e a insidie. Il suo cuore è ancora pieno di buone intenzioni. Ma un veleno sottile ha già prodotto dei danni segreti, ed ora assistiamo alla rovina della sua carriera di giudice, come prima avevamo assistito alla rovina del popolo di Dio.

«Poi Gedeone disse loro: Una cosa voglio chiedervi: che ciascuno di voi mi dia gli anelli del suo bottino», e il popolo accetta volentieri. Gedeone non concupisce queste cose come fece Acan (Giosuè 7:20-21) attirando il giudizio sopra Israele. Il suo cuore è nobile e disinteressato. Egli desidera fare buon uso di quest’oro. Aaronne, tanto tempo prima, aveva chiesto gli anelli d’oro per fare il vitello, ma Gedeone, Jerubbaal, aveva rovesciato gli idoli, ed ora non cerca minimamente di ristabilirli. Però, preso dal sentimento della sua importanza, desidera erigere ad Ofra, sua città natale, un memoriale della sua vittoria. Questo memoriale sarà un «efod», un oggetto che faceva parte dei vestiti indossati dal sacerdote quando rappresentava il popolo davanti a Dio; oggetto magnifico, è vero, ma che non aveva alcun valore agli occhi dell’Eterno se non era portato dal sommo sacerdote. Purtroppo tutto Israele considera l’efod come un mezzo per avvicinarsi a Dio, e si prostra dinanzi ad esso. Gedeone stesso e la sua casa cadono nel laccio.

La cristianità non è estranea a questi «efod». Sono numerose le cose ordinate da Dio che essa separa da Cristo, e tramite le quali pensa d’avvicinarsi a Dio. La Chiesa, il ministerio, il battesimo, la cena e persino la preghiera, separati dalla loro sorgente, diventano degli efod davanti a cui il popolo si prostra. La «forma» prende il posto di Dio e le anime ricadono nell’idolatria. E non si è fatto un idolo persino di Cristo morto in croce? Anche il serpente di rame (Numeri 21:8-9) era stato conservato e il popolo ne aveva fatto un falso dio. Come il fedele Ezechia, così il vero testimone di oggi non può sopportare simili cose; Ezechia ruppe quell’idolo e lo chiamò Nehushtan, cioè pezzo di rame (2 Re 18:4).

Che fatto umiliante! Dei conduttori che diventano gli strumenti per riportare il popolo all’idolatria! Sovente, dopo un felice inizio, il cuore si lascia guadagnare dalle insidie del mondo, e prova il desiderio di occupare un posto importante. Si fa di Ofra il centro del popolo, e dell’efod il centro d’Ofra; e si rimuove il santuario divino di Silo, il vero centro di radunamento d’Israele!

Non possiamo dire che Gedeone fosse un uomo orgoglioso; ma il suo cuore non era più retto davanti a Dio. Egli abita nella sua casa (v. 29) e si riposa delle sue gloriose opere, circondato da una numerosa famiglia. Ma si alleva un serpente in seno (v. 31) che compirà la rovina finale della sua discendenza. Appena chiude gli occhi, Israele ritorna alla vera idolatria e stabilisce Baal-Berith come dio (v. 33), facendo del diavolo stesso il capo e il «signore del patto».

Ma c’è qualcosa che consola in mezzo alla rovina, e ce lo proverà il capitolo 9: Dio non rimane mai senza testimonianza quaggiù. Siamo dunque suoi testimoni, ripetendo le parole di Gedeone al popolo: «L’Eterno regnerà su voi».

2.7 Abimelec, ovvero l’usurpazione dell’autorità (leggere cap. 9)

Questo capitolo ci introduce in una fase tanto grave della decadenza che, a prima vista, non sembra esservi alcun posto per la fede. Al cap. 8 abbiamo visto che l’assemblea d’Israele desiderava conferire l’autorità al suo conduttore; qui, un «lupo» usurpa il posto del «pastore» e s’impadronisce del gregge per divorarlo. È l’autorità arbitraria del servo malvagio della parabola (Matteo 24:48-49) che, durante l’assenza del padrone, si mette a battere i suoi conservi e a mangiare e a bere con gli ubriaconi. Ciò ricorda l’instaurarsi del clero nella Chiesa e le sue funeste conseguenze. Il miserabile Abimelec non è un giudice, ma cerca una posizione ancora più elevata: si fa proclamare re (v. 6) prendendo, in mezzo al popolo dell’Eterno il titolo dei capi delle nazioni. E, in questa veste di dominatore (v. 2), egli agisce all’opposto d’un giudice suscitato da Dio (confr. 8:23).

Per usurpare una tale posizione, Abimelec usa dei mezzi puramente umani. Tramite i fratelli di sua madre, concubina di Gedeone, seduce gli uomini di Sichem in nome del fatto che sono fratelli. Costoro gli danno fiducia poiché il loro stato morale è tanto basso da far loro dimenticare persino il legame che li unisce a tutto Israele. Essi dicono di Abimelec: «Egli è nostro fratello». I legami di fratellanza vera hanno perduto per loro il loro vero significato, e sono diventati una semplice forma destinata a caratterizzare un partito. L’usurpatore riceve dei sicli d’argento dal popolo e non si vergogna della loro origine impura (v. 4). Questo denaro, tratto dalla casa dei falsi dei, serve a compiere l’opera del diavolo. Il tesoro di Baal ha sostituito la forza del Signore e dà all’usurpatore i mezzi per perseguitare e sopprimere la discendenza della fede, la famiglia di Dio (v. 5). Uno solo, Jothan, il più giovane di tutti i figli di Gedeone, sfugge al massacro e riesce a nascondersi.

Abimelec riesce nel suo intento; lo spirito malvagio trionfa, ma non sarà mai uno spirito di pace fra gli uomini. Lotte intestine, perfidie, vendette sono la conseguenza. Vediamo l’ambizione di Gaal, i consigli di Ebed, l’astuzia di Zebul, la violenza d’Abimelec: ecco ciò che avviene nel campo d’Israele quando ha abbandonato la testimonianza di Dio. È una scena di lutto, di carneficina, di odio. Ma l’Eterno, nella sua grazia, proietta un raggio di luce in mezzo a quelle tenebre. Egli non rimane senza una testimonianza; possiamo ripeterlo con fiducia attraversando dei tempi difficili. E se anche non restasse altro, come qui, che un solo testimone di Dio in questo mondo, ci dia il Signore di essere questo unico testimone, come quel Jotham disprezzato, l’ultimo di tutti, ma che si tiene fermamente dalla parte di Dio.

Jotham, preservato dalla bontà provvidenziale dell’Eterno, va a «porsi sulla sommità del monte Garizim» (v. 7). Mosè aveva un tempo ordinato che sei tribù stessero sul monte Ebal per maledire, e sei sul monte Garizim per benedire. Quando il popolo fu entrato in Canaan, Giosuè si ricordò di quest’ordinamento; ma da allora Israele infedele scelse, per così dire, il monte Ebal attirando su di sé la maledizione di Dio. Jotham sceglie, invece, il luogo della benedizione, e rimane solo.

Testimone di Dio in faccia a tutto un popolo, eleva la voce, pronuncia la sua lunga apologia e proclama la benedizione della fede e le conseguenze dell’infedeltà del popolo. Jotham è il rappresentante delle benedizioni del vero Israele di Dio; egli è debole e perseguitato, ma può godere del favore di Dio e rendergli testimonianza, portando del frutto alla sua gloria.

Nella sua apologia, tre alberi rifiutano di andare ad agitarsi per gli altri: l’ulivo, il fico e la vite. Essi rappresentano, secondo la Parola, i diversi caratteri d’Israele sotto la benedizione del Signore. L’ulivo disse: «Rinunzierei io al mio olio che Dio e gli uomini onorano in me per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?» (v. 9). L’olio corrisponde all’unzione e alla potenza dello Spirito Santo per cui Dio e gli uomini sono onorati. L’Israele di Dio non poteva realizzare questa potenza spirituale, se non separandosi interamente dalle nazioni e dai loro princìpi. Le nazioni stabilivano dei re (1 Samuele 8:5), mentre l’Eterno era il solo che doveva regnare sul popolo fedele.

Il fico disse: «Rinunzierei io alla mia dolcezza e al frutto squisito, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?» (v. 11). Israele non poteva portare frutto se non separato dalle nazioni.

La vite disse: «Rinunzierei io al mio vino che rallegra Dio e gli uomini, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?» (v. 13). Il vino rappresenta la gioia che si trova nella comunione degli uomini con Dio. Questo godimento, il più elevato che si possa desiderare, era perduto per Israele, poiché si era adeguato allo spirito e ai costumi delle nazioni.

Che lezione per noi cristiani! Il mondo, per la Chiesa, corrisponde ai pagani di un tempo. Se ascoltiamo i suoi appelli, abbandoniamo il nostro olio, il frutto del nostro fico, il nostro vino, vale a dire la nostra potenza spirituale, le opere che Dio ci ha preparate e la gioia della comunione. Oh! rispondiamo anche noi come gli alberi della parabola a tutti gli inviti del mondo!

Rinunzierei io a ciò che costituisce la mia felicità e la mia forza, per delle agitazioni sterili, o per soddisfare le concupiscenze e le ambizioni del cuore degli uomini? Jotham apprezza, come suo padre Gedeone (8:23), quei tesori dell’Israele di Dio, e si mette da parte sul monte Garizim. Egli mantiene la sua posizione benedetta. In presenza di tutto quel popolo apostata, è il vero, e ultimo rampollo della fede, il solo testimone di Dio. Che onore per quel giovane e debole figlio di Jerubbaal! La sua sorte, benché lui sia respinto da tutti, è l’unica degna d’invidia, poiché lui solo glorifica Dio in questo mondo ribelle. Come lui, anche noi dobbiamo separarci dal male. Gusteremo, in tale posizione, tutti i prodotti degli alberi di Dio. Chi ha goduto di queste cose esclama: Rinunzierei io a queste cose?

Viene il momento in cui Jotham dopo aver mostrato al popolo la sua follia e predetto il suo castigo, fugge via (v. 21). Lascia l’assemblea d’Israele e l’abbandona al castigo che già sta alla porta. «Jotham andò a Beer e quivi abitò». Questo è il pozzo del quale l’Eterno disse a Mosè: «Raduna il popolo ed io gli darò dell’acqua», pozzo che il cantico d’Israele celebrò (Numeri 21:16-18).

Così in mezzo alla cristianità già matura per il giudizio, i testimoni fedeli si ritirano a Beer, luogo del vero radunamento e delle sorgenti d’acqua viva, luogo dei cantici e delle lodi.

2.8 Thola e Jair (leggere cap. 10:1-5)

L’inizio di questo capitolo ci presenta brevemente la storia di due giudici d’Israele, Thola e Jair. Erano entrambi uomini eminenti. Il primo a causa della sua stirpe, poiché la Genesi fa menzione dei suoi antenati fra i figli d’Israele che discesero in Egitto, e nomina Thola e Puah fra i figli d’Issacar (Genesi 46:13 e 1 Cronache 7:1). Il secondo per le sue ricchezze, il numero dei suoi figli, la sua prosperità (5:10), le sue città. Ma, cosa notevole, non è aggiunto altro. Il loro regno ha una durata poco comune; Dio si serve di loro, qualificando persino Thola per liberare Israele, ma non si glorifica per mezzo loro in modo speciale.

Ci ricorda un passo in 1 Corinzi 1:26-29: «Non molti potenti, non molti nobili... Ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i savi; e Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; e Dio ha scelto le cose ignobili del mondo, e le cose sprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente quelle che sono, affinché nessuna carne si glori nel cospetto di Dio». Dio adopera di preferenza dei «vasi deboli»; per questo tanti giudici sono contraddistinti, in un modo o in un altro, da un segno di debolezza. D’altronde, tutto il valore degli strumenti di Dio consiste nel presentare il carattere di Cristo. Un uomo potente, nobile o ricco, riproduce difficilmente i tratti di Colui che fu quaggiù debole, umiliato e povero, per portarci la grazia di Dio. I primi giudici non furono né dei Thola né degli Jair, ma furono esempi d’umiltà, uomini che stimarono gli altri più di se stessi, che diedero prova d’un’energia spirituale che nulla riuscì a fermare; e proprio la loro debolezza riportò la vittoria.

2.9 Nuovo risveglio d’Israele (leggere cap. 10:6-18)

Nonostante i tempi tranquilli di Thola e Jair, il popolo cade sempre più in basso. La decadenza continua, il male si accentua. «E i figliuoli di Israele continuarono a fare ciò che è male agli occhi dell’Eterno e servirono agli idoli di Baal e di Astarte, agli dèi della Siria, agli dèi di Sidon, agli dèi di Moab, agli dèi dei figliuoli di Ammon, agli dèi dei Filistei; abbandonarono l’Eterno, e non gli servirono più» (v. 6). Mai si erano visti riuniti in Israele tanti falsi dei. L’idolatria più completa caratterizza il popolo.

Ammon agisce come verga dell’Eterno e opprime Galaad per diciott’anni. Il nemico passa il Giordano per fare altrettanto a Giuda e a Beniamino. Allora, sotto la pressione delle circostanze, la grazia produce un’opera nella coscienza del popolo. Man mano che l’apostasia progredisce, i risvegli si approfondiscono nelle coscienze. Non dico «si estendono». Ricordiamoci, per esempio, il cantico di Debora, che rimette in piena luce tutti i privilegi del popolo di Dio. Ma a quel tempo Israele sentiva poco la sua responsabilità, la coscienza del popolo era meno colpita, il giudizio di sé meno marcato.

Troviamo qui, per la prima volta, la luce divina che penetra nella coscienza del popolo per condurlo a giudicarsi profondamente (6:7-10). «Abbiamo peccato contro di te», dicono «perché abbiamo abbandonato il nostro Dio, e abbiamo servito agli idoli Baal» (v. 10). Allora Dio ricorda loro le sue grazie e le sue liberazioni di un tempo, e come li aveva salvati dalla mano di molte nazioni; poi aggiunge: «Eppure, m’avete abbandonato e avete servito agli altri dèi». Lanciando una freccia nella loro coscienza, termina con queste parole: «Perciò io non vi libererò più» (v. 13). Israele come popolo non può essere ristorato. E così è anche per la Chiesa.

A quelle parole, i figliuoli d’Israele fanno un nuovo passo nella via salutare in cui lo Spirito di Dio li conduce. «Abbiamo peccato; facci tutto quello che a te piace». Confessano il loro peccato, si condannano, riconoscono la giustizia del giudizio di Dio, e aggiungono: «Soltanto, te ne preghiamo, liberaci oggi» (v. 16). Essi fanno appello alla grazia. Resterà Dio sordo al loro grido? Impossibile! Il pentimento li porta a conoscere il Signore meglio di quanto l’avessero conosciuto prima.

Questo risveglio non sarebbe reale se non portasse dei frutti. «Allora tolsero di mezzo a loro gli dèi stranieri e servirono all’Eterno» (v. 16); convertendosi dagli idoli a Dio, ora servono il Dio vivente e vero. Allora l’Eterno apre loro i tesori di pietà del suo cuore.

Dio voglia che, nei nostri tristi giorni, sia questo il carattere del risveglio. È bene che le anime conoscano i loro privilegi e la loro posizione celeste, ma è anche necessario che un lavoro profondo di coscienza accompagni il risveglio, affinché i cristiani portino dei frutti di reale santità, di umile devozione, di consacrazione completa e silenziosa; che non ci si metta avanti per parlare di sé, ma si abbandonino i propri idoli per servire l’Eterno.

Per quanto benedetto sia questo giorno di risveglio, una cosa manca: la conoscenza delle verità fondamentali che Dio aveva affidato al suo popolo. «Il popolo, i principi di Galaad, si dissero l’un l’altro: Chi sarà l’uomo che comincerà l’attacco contro i figliuoli di Ammon? Quegli sarà il capo di tutti gli abitanti di Galaad» (v. 18). Manca qui la coscienza dell’unità del popolo; Galaad è considerato come a sé stante. L’autorità e la direzione dello Spirito di Dio sono poco conosciute, poiché dicono: «Chi sarà l’uomo che...?». Sono a un passo dal sceglierselo loro, e questo passo lo faranno, come vedremo nei v. 4-11 del capitolo seguente. Non che Jefte non sia stato suscitato da Dio, ma Galaad ha una parte in questa scelta. Questa intromissione dell’uomo nei piani di Dio è la triste caratteristica degli ultimi tempi della decadenza.

2.10 Jefte e sua figlia (leggere cap. 11)

I versetti 1-11 ci presentano il liberatore. Egli porta il segno di quell’infermità contestata così sovente nel corso di questo libro. Jefte, il Galaadita, pur essendo «un uomo forte e valoroso», era d’origine impura, figlio di una meretrice. Tuttavia, Dio si serve di lui; anzi, ci presenta in lui alcuni dei caratteri di Cristo. Ricordiamoci che la vita dei credenti non ha valore se non riproduce qualcosa dei caratteri del Salvatore. La storia di Jefte nel suo insieme ci offre poca edificazione se non vi cerchiamo ciò che manifesta il carattere di Dio. Dio ci descrive, nella sua Parola, tutte le debolezze e le infermità di uomini come Jefte; ma nella loro storia ci dà molto più di questo: ci presenta Cristo. Ecco ciò che li rende tanto interessanti per noi. Noi scopriamo facilmente i difetti dei nostri fratelli; ma dovremmo interessarci di più al modo in cui Dio li foggia, per fare di loro, malgrado tutto, dei testimoni del suo Figlio.

Jefte, la cui origine ha qualche analogia con quella d’Abimelec, è in contrasto assoluto con quell’uomo empio. Abimelec tenta fin dal principio d’innalzarsi, e usurpa il posto della famiglia legittima di Gedeone. Jefte, anche se è il primogenito della famiglia, è respinto dai suoi fratelli: «Tu non avrai eredità in casa di nostro padre, poiché sei figliuolo d’un’altra donna» (v. 2). Non ci ricorda forse le parole dei malvagi servi della parabola: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi»? (Luca 19:14).

«E Jefte se ne fuggì lungi dai suoi fratelli e si stabilì nel paese di Tob» (v. 3). Jefte si lascia spogliare, si abbassa, invece di tener testa ai malvagi; abbandona i suoi diritti e se ne va in un paese straniero. Ma Dio sa ritrovarlo e ricondurlo sulla scena. Giunge il momento in cui coloro che avevano cacciato colui che deve essere liberatore sono obbligati a gettarsi supplichevoli ai suoi piedi. Jefte dice agli anziani di Galaad: «Non m’avete voi odiato e cacciato dalla casa di mio padre?» (v. 7). Essi sono obbligati, come un tempo i fratelli di Giuseppe, a riconoscere in un paese lontano quel salvatore che prima avevano schernito e a fare appello a lui nella loro distretta chiedendogli di diventare il loro capo. Jefte non vuole prendere quel titolo prima della vittoria (v. 9). Così sarà di Cristo, riconosciuto pubblicamente capo d’Israele per il suo trionfo sui loro nemici. È bello vedere in questo uomo disprezzato dal mondo, ma che sopporta il suo disprezzo, un debole ritratto del Messia; si può dire ch’egli fu stimato degno di condurre il popolo di Dio perché presentava qualche carattere di Cristo.

I figli di Ammon erano, in quel tempo, nemici accaniti d’Israele. I peggiori avversari del popolo di Dio sono sovente parenti, secondo la carne, di qualche credente. Madian, che combatte Gedeone, proviene da Ismaele, progenie d’Abramo secondo la carne; Moab e i figli d’Ammon sono usciti da Lot; Edom è il figlio carnale di Isacco. I nostri nemici più accaniti sono sovente i frutti dei nostri errori. Ciò che si oppone di più alla testimonianza e alla vita spirituale della Chiesa è l’amaro prodotto della sua infedeltà, che porta il nome di Cristo, ma la cui vita idolatra, la cui inimicizia e le cui astuzie saranno, sino alla fine, l’umiliazione, il castigo e un laccio per il popolo di Dio.

I figli d’Ammon approfittano dello stato di umiliazione d’Israele per attaccarlo, e cercano di spogliarlo del territorio che gli appartiene e di appropriarsene. Che profitto aveva tratto il popolo dall’inginocchiarsi davanti agli idoli di Ammon? Era caduto sotto il giudizio di Dio e fra le mani dei nemici del Signore. Se prendiamo posto nel mondo, esso ci spoglia, ci fa perdere la realtà dei nostri privilegi e se ne impadronisce. Ne risulta una terribile confusione. Il mondo ci dice allora: Ho gli stessi vostri diritti, sono anch’io buon cristiano come voi, poiché anche voi mostrate per le cose di questa terra gli stessi miei interessi. «Israele s’impadronì del mio paese... rendimelo all’amichevole» (v. 13). Tale è la conseguenza della nostra infedeltà.

In queste circostanze un risveglio produce degli effetti sorprendenti. Jefte non nega lo stato di abbassamento di Israele, ma parlando ai figli di Ammon risale all’origine delle sue benedizioni (v. 15-27). Lungi dall’adattarsi a questo stato di cose, accettando il giogo d’Ammon che aveva pesato su di loro per diciott’anni, egli si fonda sulle benedizioni antiche d’Israele, nel giorno in cui uscì dall’Egitto per entrare in Canaan. Cammineremo — dice egli — secondo i principi che Dio ci ha dati e che restano nostri per sempre. Jefte vede il popolo, la famiglia di Dio, tale come Dio l’ha visto al principio, e dice che il loro combattimento non è stato contro i figli di Ammon, ma contro gli Amorrei. Lo stesso è per la Chiesa. La sua lotta è contro le potenze spirituali nei luoghi celesti (Efesini 6), come quella d’Israele con i Cananei. Non siamo alle prese con le mescolanze religiose sorte dall’opera della carne; non le riconosciamo né come amiche né come nemiche, e le combattiamo solo quando ne siamo costretti. La nostra parola dev’essere quella di Jefte: Noi conserveremo il paese che l’Eterno ci ha dato (v. 24).

Per queste parole, a Jefte viene accordata una nuova benedizione: «Lo Spirito dell’Eterno venne su Jefte» (v. 29). La potenza di Dio stava nella via ch’egli seguiva. Non conformarsi alla rovina, perché Dio non la può accettare, e agire sui princìpi che Dio ci ha affidati all’inizio: questa è la via della potenza, anche se siamo solamente due o tre radunati al suo nome.

«Lo Spirito dell’Eterno venne su Jefte». Ahimè! Come accade sovente, la carne si palesa anche in lui. Egli non si accontenta della grazia e della potenza divine. Ignorando il vero carattere di Dio, «fa un voto all’Eterno» (v. 30), fa un accomodamento con Dio, sul terreno d’una transizione reciproca e, vincolandosi su un principio di legge, ricade nell’errore commesso da Israele nel deserto di Sinai: «Se tu mi dai nelle mani i figliuoli di Ammon quando tornerò vittorioso dai figliuoli di Ammon, la persona che uscirà dalle porte di casa mia per venirmi incontro sarà dell’Eterno, e io l’offrirò in olocausto».

Dio, lasciando Jefte alla responsabilità e alle conseguenze del suo voto, non protesta, né entra in quest’accordo. Il cielo sembra essere chiuso alla voce del conduttore di Israele. Tuttavia, lo Spirito dell’Eterno gli fa riportare la vittoria.

Jefte ritorna a Mispa, a casa sua, ed ecco che sua figlia gli esce incontro con tamburi e con flauti. «Era l’unica sua figlia» (v. 34). Queste parole ci ricordano più d’un passo della Scrittura. Dio dice ad Abramo: «Prendi il tuo figliuolo, il tuo unico, colui che ami, Isacco» (Genesi 22:2), e Abramo lo sacrifica, ma «per fede», per ordine di Dio; Jefte, invece, offre sua figlia con un atto volontario che dimostra una mancanza di fede. Questa parola «unico», ci ricorda anche qualcuno più grande d’Isacco. Come Jefte al principio della sua carriera, la sua figlia riproduce qui in modo commovente qualche particolarità del carattere di Cristo. Tanto la fede manca nel padre quanto invece brilla nella sua povera figlia.

Questa ragazza, figlia unica, votata in anticipo al sacrificio per un voto temerario (Cristo lo fu, al contrario, per il consiglio definito e la preconoscenza di Dio) la vediamo sottomettersi, invece che ribellarsi e biasimare suo padre. «Padre mio — ella dice — se hai dato parola all’Eterno, fa’ di me secondo quel che hai proferito; giacché l’Eterno t’ha dato di far vendetta dei figliuoli di Ammon, tuoi nemici» (v. 36). Ella si sottomette a causa dell’Eterno, pallido riflesso di Colui che disse: «Io vengo, o Dio, per fare la tua volontà». La sua vita non conta più nulla di fronte alla vittoria: «Giacché l’Eterno t’ha dato di far vendetta dei tuoi nemici». Così accetta di essere sacrificata per questa vittoria. Nessun pensiero riguardante se stessa la ferma. Bella abnegazione della fede che riguarda solo a Dio!

D’una cosa soffre, dolore crudele per tutte le donne di fede in Israele; del fatto di non poter essere madre, di non poter avere una progenie che le permettesse di entrare nella discendenza del Messia. «Che io vada e scenda per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne» (v. 37). Però, per quanto bella sia quest’abnegazione, quanto è superiore quella del Signore Gesù! Egli, a cui tutto apparteneva, accettò di essere ucciso per la nostra salvezza. Abbandonando tutte le sue prerogative di Messia, tutti i suoi diritti di Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, per ottenere una migliore vittoria ha lasciato la sua vita. Ma Egli «vedrà una progenie» e Dio «renderà la sua progenie eterna» (Salmo 89:29).

Veramente, questa ragazza d’Israele riproduce, senza dubbio ben debolmente, qualche perfezione della persona di Cristo. La sua fede semplice risplende nella totale sottomissione alla volontà di Dio. Ella accetta di essere offerta in sacrificio, come Colui che fu sacrificato più tardi non, come lei, per confermare la vittoria, ma per ottenerne una più grande, eterna. Seguiamo il suo esempio. Impariamo a non pensare a noi stessi, offrendoci a Colui che fu sacrificato per noi; a morire «in fede, senz’aver ricevuto le cose promesse» (Ebrei 11:13), senza ottenere un risultato apparente del nostro lavoro, ma soddisfatti d’essere stati testimoni e rappresentanti di Cristo in mezzo agli uomini, a onore di Dio!

2.11 Una lotta tra fratelli (leggere il cap. 12:1-6)

Il cap. 12 ci presenta il quadro di uno dei più gravi sintomi di declino: la guerra aperta tra fratelli. Un tempo, quando il popolo non aveva abbandonato il primo amore, oppure quando il suo conduttore mostrava più potenza spirituale, questa calamità era stata evitata. Il tentativo di Satana è sempre stato quello di disunire i figli di Dio. Egli sa che la nostra forza sta nell’essere raccolti tutti intorno a un centro comune, il Signore Gesù; e sa che l’unità di tutti i veri credenti è impossibile da distruggere perché è un’unità che Dio ha stabilito; allora, cerca di impedire la realizzazione di questa unità che è affidata alla nostra responsabilità. E sappiamo quanto sovente sia riuscito bene nel suo intento. «Il lupo rapisce e disperde le pecore» aveva detto il Signore.

Nell’epoca descritta dal libro di Giosuè, caratterizzata dalla potenza dello Spirito Santo, questo pericolo fu sventato all’occasione del conflitto creatosi per l’altare di Hed (cap. 22). Grazie all’energia delle tribù e allo zelo di Fineas, l’introduzione di princìpi settari fu evitata. Anche se rischiamo una guerra tra fratelli, noi dobbiamo stare sulla breccia, quando si tratta di princìpi divini. Il mantenimento dell’unità d’Israele, così come Dio l’aveva stabilita, aveva allora per i santi più importanza dei rapporti cortesi tra frattelli.

Più tardi, e lo vediamo in Giudici 8:1, quando Efraim si mise a combattere contro Gedeone, il conflitto fu sedato grazie all’umiltà di quest’ultimo che stimava «la racimolatura» di Efraim migliore della «vendemmia» di Abiezer. Ma sia nel capitolo 8, sia qui nel capitolo 12, non si tratta di princìpi da difendere. Il malcontento di Efraim deriva dall’orgoglio ferito. Calmati dall’umiltà di Gedeone, ma non colpiti né giudicati nella loro coscienza, gli Efraimiti rinnovano di fronte a Jefte le stesse accuse. Un male non giudicato della nostra carriera cristiana si ripresenterà presto o tardi se si ripetono le stesse circostanze. Qui, lo stato d’Efraim è ancora peggiore, poiché prima aveva almeno racimolato, ma ora non ha fatto nulla. Eppure è geloso dei risultati che l’energia della fede ha prodotto nei suoi fratelli.

È la stessa cosa al giorno d’oggi, e siamo tutti in pericolo di cadere in questo laccio, abbandonando la testimonianza di Cristo e tornando al mondo. Agli occhi di quelli di Efraim non v’è nulla di importante se non ciò che proviene da loro stessi; non sanno né umiliarsi, né rallegrarsi di ciò che Dio fa per mezzo d’altri; se l’opera prosegue, si mostrano gelosi; se si ingrandisce, diventano nemici e passano all’odio e alle minacce: «Noi bruceremo la tua casa e te con essa» (v. 1).

Al tempo di Debora, Efraim era il primo; sotto Jefte non tiene più conto né di Dio né delle sue benedizioni precedenti; non gli rimane che il ricordo della sua importanza e il bisogno di farla valere. D’altra parte, purtroppo, nemmeno troviamo in Jefte il disinteresse e l’umiltà di Gedeone. Egli risponde alla carne con la carne, all’«io» egoista di Efraim con il suo «io» ferito. «Io e il mio popolo abbiamo avuto grande contesa coi figliuoli di Ammon; e quando io vi ho chiamati in aiuto, voi non mi avete liberato dalle loro mani. E vedendo che voi non venivate in mio soccorso, ho posto a repentaglio la mia vita, ho marciato contro i figliuoli di Ammon e l’Eterno me li ha dati nelle mani. Perché dunque siete saliti oggi contro di me per muover guerra?» (v. 2-3). Jefte parla di sé, pensa al suo valore contestato, cade nel laccio che Satana gli tende; aveva proclamato poco prima l’unità del popolo in presenza dei figli di Ammon, e ora forma un partito (11:12,23,27). «Il mio popolo», dice, facendo allusione a Galaad in opposizione ad Efraim!

La contesa si alimenta con le parole. «Gli uomini di Galaad sconfissero gli Efraimiti perché questi dicevano: Voi, Galaaditi siete dei fuggiaschi d’Efraim, in mezzo ad Efraim e in mezzo a Manasse» (v. 4). In questa lotta non v’è in gioco un solo principio; non v’è che gelosia, importanza personale, parole roventi scambiate da cuori irritati, e la guerra fratricida scoppia in seno ad Israele. Ai passi del Giordano si sgozzano a vicenda. «E perirono in quel tempo quarantaduemila uomini di Efraim».

Stiamo in guardia contro tali lacci, poiché una cosa caratteristica di un tempo di rovina è appunto la guerra nella famiglia di Dio. Dobbiamo avere dei cuori larghi riguardo all’opera di Dio in questo mondo. Se è affidata anche ad altre mani, deve avere per noi la stessa importanza e lo stesso valore della nostra opera. Non diamo alla nostra opera una qualche importanza; facciamo come Gedeone, e non misuriamo la vendemmia d’Abiezer. Ai primi tempi della Chiesa (Atti 6:1-6), mormorii e gelosie sorsero fra gli Ellenisti e gli Ebrei; per calmarli, ci volle ben più dell’umiltà di Gedeone; fu necessaria la grande sapienza degli apostoli.

2.12 Ibtsan, Elon e Abdon (leggere cap. 12:7-15)

Dopo Jefte, sotto il regno di altri tre giudici, Israele gode un epoca di pace. Uno di questi giudici proviene dalla tribù di Giuda, l’altro da Zabulon, il terzo da Efraim. Non sono chiamati al combattimento, bensì a mantenere il popolo nello stato in cui la vittoria precedente l’ha posto. Forse non hanno la stessa energia di Jair (10:1-5), ma come lui, due di loro godevano d’un grande benessere. I tempi di prosperità materiale non sono sempre i più benedetti per il popolo di Dio dal punto di vista morale e spirituale. Qui è messa in evidenza l’importanza personale di questi giudici, ma non lo stato morale d’Israele. Siamo informati su quello che questi uomini fanno, ma non si sa ciò che accade nel cuore e nella coscienza del popolo. Così, appena l’ultimo di questi giudici muore, Israele ricade nello stato di prima (13:1).

In certi tempi si tratta di «sormontare»; in altri di «restare ritti in piedi» (Efesini 6:13). In che modo impieghiamo i giorni di pace che il Signore ci accorda? A fortificarci nella verità che Dio ci ha dato, o ad addormentarci nel benessere, per risvegliarci poi improvvisamente quando Satana torna alla carica e trovarci senza forza in presenza del nemico? Chi non è nutrito, non ha la forza di combattere. Approfittiamo di questi tempi prosperi per fare la conoscenza personale del Signore e vivere nella sua intimità; troveremo in tal modo la forza per resistere a nuovi attacchi, ed eviteremo di cadere sotto nuovi «gioghi», più pesanti della schiavitù di un tempo.

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